«Ai conservatori serve un modello di società alternativo a quello progressista»

Di Martino Loiacono
21 Dicembre 2021
Parla lo storico ed editorialista Marco Gervasoni: «L'ondata populista è finita, Meloni se ne è accorta. E ha capito che il nodo è quello delle battaglie culturali»
Giorgia Meloni durante il suo intervento all'Assemblea di Coldiretti a Roma (foto Ansa)

Continua il dibattito di Tempi sul ruolo dei conservatori in Italia e lo spazio per un partito conservatore. Dopo l’intervento di Lorenzo Castellani, e le interviste a Eugenio Capozzi e Giuseppe De Rita, abbiamo pubblicato un commento di Lorenzo Malagola e uno di Carlo B. Scott Visconti. Il dibattito prosegue con questa intervista a Marco Gervasoni.

«La differenza tra conservatori e progressisti oggi non riguarda più tanto l’economia, ma piuttosto la cultura: i temi antropologici sono un campo di battaglia fondamentale. Ai conservatori, oltre all’opposizione al globalismo progressista, serve un modello di società alternativo». Marco Gervasoni, professore ordinario di Storia contemporanea all’Università degli studi del Molise ed editorialista del Giornale, analizza l’ascesa di Giorgia Meloni e le sfide del nazional-conservatorismo che ha ormai archiviato il conservatorismo globalista dei primi anni Duemila.

Professore, Atreju è stata al centro del dibattito politico per circa una settimana. Una prova di forza non da poco.

Era prevedibile che Atreju avrebbe avuto questa importanza, perché la Meloni è già al centro della scena da diverso tempo. Il fatto che sia stata organizzata d’inverno è stato innovativo ed efficace: non a caso hanno partecipato tutti i leader politici e l’evento è diventato un palcoscenico notevole anche per via della vicinanza con l’elezione del Presidente della Repubblica. Un segnale importante anche perché i partiti sono sempre meno strutturati e organizzati.

Giorgia Meloni sta pensando in grande?

Direi proprio di sì, ed è normale, perché la Meloni vuole guidare il centrodestra e diventare presidente del Consiglio, tramite elezioni e non attraverso manovre di Palazzo. Un’aspirazione che nasce da prima del governo Draghi e si fonda sulla scommessa della crisi di consenso di Forza Italia e sul fatto che il progetto della Lega nazionale sarebbe fallito. Questo scenario era già presente alle europee del 2019, momento cruciale per FdI che supera il quorum ed entra nel gruppo dei conservatori europei (Ecr).

Una lettura interessante, con una Lega al 34,3 per cento…

La Meloni ha avuto un grande intuito a vedere questo spazio in anticipo e a perseguire l’identità conservatrice. Aveva intuito che il gruppo Identità e democrazia (i cui partiti principali erano il Rassemblement National di Marine Le Pen e la Lega) non avrebbe avuto futuro, anche perché non aveva storia. Mentre il gruppo dei conservatori aveva radici molto più solide e un’identità forte. Peraltro, la leader di FdI aveva intuito che il populismo aveva il fiato corto e che sarebbe stato necessario legarsi a parte dell’establishment per evitare l’isolamento (al tempo i conservatori inglesi erano in questo gruppo). Un’intuizione a cui probabilmente non era giunto Salvini che ha cercato un cozzo plebiscitario con l’establishment, fallendo.

Quanto pesa la candidatura della Meloni a leader del fronte conservatore in Italia? Cosa cambia per il centrodestra e nel rapporto con Salvini?

Di certo quella del fronte conservatore è una novità. Ma il centrodestra non può essere identificato con il fronte conservatore, perché esso necessita di una componente liberal-moderata e anche cattolica. Va letto in questo senso l’invito della Meloni all’apertura verso altre culture politiche. Bisogna anche ricordare che le uniche esperienze politiche conservatrici in Italia furono di stampo cattolico. Per questo il centrodestra non può lasciare il cattolicesimo alla sinistra che è per il ddl Zan, l’eutanasia e contro l’obiezione di coscienza. Insomma, non si può lasciare il cattolicesimo a un partito radicale di massa come il Pd. Il rapporto con Salvini è certamente conflittuale perché entrambi puntano alla leadership del centrodestra. La situazione è frastagliata e molto rischiosa, anche per via dell’elezione del prossimo presidente della Repubblica. Che, per gli interessi del centrodestra, dovrebbe essere Silvio Berlusconi.

La Meloni ha insistito molto sul conservatorismo che pare abbia sostituito il sovranismo: è una differenza nominale o siamo di fronte a un cambiamento sostanziale?

Il termine conservatorismo ha surclassato il termine sovranismo. La Meloni si è probabilmente accorta che il sovranismo non portava da nessuna parte. Del resto, il conservatorismo ha una tradizione plurisecolare in tanti Paesi e con varie interpretazioni. Al contrario, il sovranismo è recente e teoricamente molto fragile. Il conservatorismo ha inglobato il sovranismo e si configura come nazional-conservatorismo che è molto diverso dal conservatorismo-globalista pre-Trump rappresentato dai repubblicani americani alla Bush.

Secondo lei, con questo nuovo posizionamento conservatore, c’è stato anche un superamento del populismo da parte della Meloni?

A mio avviso in Meloni resta solo il populismo come stile politico. Non certo come cultura politica che non funziona. L’ondata populista del 2016, iniziata con la Brexit e la vittoria di Trump, è tramontata; è finito il populismo che mette in discussione la frattura tra destra e sinistra. La Meloni vuole infatti l’opposizione bipolare tra conservatori e progressisti. Non guarda più alla frattura élite-popolo.

Con quali partiti conservatori può dialogare la Meloni?

A livello internazionale, anche come leader dell’Ecr, coltiva rapporti con Vox, con i repubblicani americani, con Orbán e con il Pis. In campo internazionale, poi, bisogna anche notare che ha rotto diverse ambiguità nei confronti della Russia, grazie a un’importante svolta atlantista che guarda agli Stati Uniti e a Israele.
Sul piano della cultura politica, invece, è lontana dal conservatorismo globalista (Bush, Cameron e per certi versi Berlusconi), perché è una nazional-conservatrice. Una posizione inaugurata dall’avvento del trumpismo e ormai dominante nel fronte conservatore.

Una differenza importante: cos’è cambiato rispetto al passato per il fronte conservatore?

La svolta riguarda la centralità del piano culturale (nazional-conservatorismo) che ha via via rimpiazzato quello economico (conservatorismo globalista) La differenza più notevole tra conservatori e progressisti oggi non riguarda più tanto l’economia, ma piuttosto la cultura (it’s the culture, stupid!), soprattutto nell’Unione europea per via del pilota automatico ormai dominante per le politiche economiche. La Meloni ha capito che il nodo è culturale. Le linee di frattura oggi riguardano il ddl Zan, l’aborto, la cancel culture, il woke e il politicamente corretto. Il conservatore, in questo scenario, è colui che tutela identità, tradizione e cultura che sono minacciate dall’offensiva del globalismo progressista. In passato, soprattutto negli anni Ottanta, con Reagan e la Thatcher la questione era soprattutto economica. Certo, sul piano economico resta la necessità di abbassare le tasse sui piccoli e medi imprenditori affinché non si affermi un modello culturale in cui la ricchezza è prodotta esclusivamente dalla finanza che non di rado genera una denazionalizzazione.

È il tempo delle guerre culturali, insomma: cosa possono fare i conservatori per vincere questa complessa battaglia?

È così: basti pensare al gender e ai tanti temi antropologici (il transumanesimo e simili) con cui il progressismo globalista vorrebbe rimodellare radicalmente la società. Per vincere questa sfida, è necessario affrontare questi temi con serietà e poi servono risposte nette, e, come avrebbe detto Craxi, bisogna governare il cambiamento. I conservatori dovrebbero far sì che non avvenga un rimodellamento della società: devono porre un freno a questi mutamenti. Ma non basta: risulta necessario fornire un modello alternativo a quello progressista. Si pensi ad esempio a Reagan, alla Thatcher ma anche alla stessa Democrazia cristiana che seppe ricostruire l’Italia senza piegarsi al comunismo.

Foto Ansa

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