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Cosa conservare, per essere conservatori?

Si percepisce che conservare è cosa buona, e che qualcosa da conservare c’è. Il problema è capire cosa. Domande e provocazioni

Carlo B. Scott Visconti
20/12/2021 - 6:23
Politica
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Giovannino Guareschi
Giovannino Guareschi

La scorsa settimana Tempi ha iniziato un dibattito sul conservatorismo in Italia. Dopo l’intervento di Lorenzo Castellani, e le interviste a Eugenio Capozzi e Giuseppe De Rita, abbiamo pubblicato un commento di Lorenzo Malagola. Il dibattito prosegue con questa opinione di Carlo B. Scott Visconti.

Il dibattito su un possibile spazio per il “conservatorismo” in Italia è interessante. Il brand è sicuramente prestigioso (riconoscibile, significativo, non troppo usato nell’agone politico nostrano, per i mille motivi che sono fin qui emersi). Le immagini che il nome “Conservatori” è in grado di evocare appartengono alla mitologia politica del mondo libero (Il Churchill dell’ora più buia, la Thatcher della guerra contro i generali argentini e dello scontro con le Trade Union). I potenziali interessati alla cosa costituiscono, con buone probabilità, più di una esigua minoranza.

I dubbi e le perplessità, oltre che l’apprezzamento per il recupero di una dimensione del pensiero politico oggi assente (anche il pensiero, non solo la dimensione…) emersi negli articoli di chi mi ha preceduto sono calzanti e profondi. Credo anch’io che lo Stato italiano sia da sempre, in ogni sua fase, “rivoluzionario”, o se si preferisce “trasformatore”.

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Trasformatrice è stata la monarchia risorgimentale (che ha eliminato le forme istituzionali che per almeno cinquecento anni avevano dato struttura all’esistenza politica della nazione italiana, e lo ha fatto attraverso l’idea rivoluzionaria che a una nazione dovesse necessariamente corrispondere un solo Stato).

E così è stato il regime fascista (che in parte si è concepito come il continuatore ideologico dell’epopea nazionale risorgimentale; in parte è stato il motore di una rivoluzione politica e economica per cui l’interesse della Nazione – ergo dello Stato, ergo del Partito – era superiore all’interesse del singolo o di qualsiasi soggetto “privato”; in parte è stato reazionario, nella misura necessaria a contenere e eliminare le forme rivoluzionarie concorrenti).

Lo è stata la cosiddetta “prima Repubblica”, nelle forme della “socialdemocrazia cristiana”, dell’egemonia culturale gramsciana e radicale – cioè liberal progressista – e infine del cattolicesimo politico post tutto, evolutosi poi nel più semplice post cattolicesimo. Lo è infine la “seconda Repubblica”, dominata dal “vincolo esterno”, dalla radicale “disintermediazione”/individualizzazione di ogni posizione, giudizio e progetto, dalla profonda riconfigurazione del tessuto industriale, economico, sociale e antropologico del Paese, “perché ce lo chiede l’Europa, la modernità, l’Agenda 2030, la Rivoluzione industriale 4.0, etc…” .

Credo anch’io che essere conservatori, nel “bel paese là dove ‘l sì suona”, non sia mai stato troppo conveniente e utile, e spesso sia stato confuso con l’essere tradizionalisti, reazionari, moderati (qualunque cosa questo riferimento a un atteggiamento inteso secondo accezioni che vanno dal “pavido” allo “scarsamente testosteronico” possa significare) o centristi (rispetto a cosa?). E però l’aver evocato questa prospettiva, al di là della anche giustificata ricerca di un riferimento politico che dica qualcosa e che superi termini semanticamente spappolati come “populista” o “sovranista”, tocca un nervo scoperto, una speranza segreta che, come dice il poeta, si tace come un’onta.

Si percepisce, in altri termini, che conservare è cosa buona, e che qualcosa da conservare c’è. Il problema è capire cosa.
Cosa conservare, per essere conservatori?

Conservare le “penultime” forme istituzionali, sociali, culturali, messe in discussione dalle ultime trasformazioni? Per intenderci: difendere la ridotta della Costituzione rigida, la “più bella del mondo” dal 1948, dalla erosione, dall’ammorbidimento, dalla desuetudine, dallo svuotamento che questi anni di emergenza hanno completato e reso evidente? “Tornare allo Statuto”, come si diceva ai tempi belli dei liberali conservatori? Conservare forme sociali e politiche, come i partiti e i sindacati, la cui mutazione genetica è completa e irreversibile, pensando alla loro palingenesi se solo si applicasse quanto previsto dai Costituenti all’alba della Repubblica? Oppure, andando più indietro ancora, vagheggiare ritorni impossibili a forme istituzionali “tradizionali”, di cui si è perso non solo l’esperienza, ma perfino il significato teorico?

Conservare una struttura valoriale riassumibile in “Dio, Patria e Famiglia”, dove i primi due termini sono archeologia, e il terzo declinato necessariamente al plurale? Significherebbe, se la questione si pone sul piano dei valori, immaginarsi una “culture war” di proporzioni titaniche, che potrebbe portare a piccole vittorie conquistate a caro prezzo, immediatamente erose dal piano inclinato di una rivoluzione culturale (e aggiungerei religiosa) questa sì epocale.

Allora conservare i principi non negoziabili e imprescindibili della nostra civiltà occidentale, nata dai colli fatali dell’Acropoli, del Campidoglio e del Golgota? Ma è compito della politica preservare principi che, se sono tali, dovrebbero auto conservarsi nella loro eterea perfezione e nella loro perenne razionalità?

Giovannino Guareschi fa dire al Cristo che ciò che il contadino fa quando arriva l’alluvione è “salvare il seme”, cioè la fede. È questo il compito di una forza politica conservatrice? È questo ciò che va conservato? Sì e no. È questo che va conservato dagli uomini, non dai partiti. A una forza politica che non sia partecipe del continuo inverarsi hegeliano della rivoluzione come Spirito del mondo, spetta il compito di conservare le condizioni di esistenza dei cittadini come soggetti titolari di un loro potere di costruire la “Res Publica”. Conservare lo spazio in cui il cives può essere tale. Uno spazio che non è prima di tutto la partecipazione alla gestione del potere degli enti pubblici, o l’adesione morale a iniziative etiche, ma consiste in alcune dimensioni necessarie perché ogni cives possa, agendo nel suo diritto, costruire spazi di rilevanza pubblica.

Uno spazio politico e giuridico. Lo spazio in cui il giuramento con cui un uomo libero vincola la sua libertà a una volontà e a una scelta definitiva e la svincola dai cambiamenti di parere o di opinione (l’unico spazio in cui questo è seppur parzialmente accettabile oggi è quello familiare). Lo spazio in cui proprietà, reddito, risparmio sono strumenti adeguati alla creazione diffusa di capitali da investire in lavoro, in impresa (in forme più personali che anonime, e più produttive che finanziarie) e in sostegno alle necessità sociali.

Lo spazio in cui il denaro recupera la sua funzione di accumulatore di ricchezza nel tempo (intergenerazionale) e di trasferibilità di ricchezza nello spazio con il minor intervento possibile di mediatori tecnici, burocratici o amministrativi (la trasformazione del denaro contante in un sistema di credito, apparentemente una disintermediazione, permette la disponibilità della ricchezza solo a condizione che le proprie credenziali personali siano accettate, in modo automatico e non negoziale, dal sistema che li gestisce).

Lo spazio in cui l’esistenza e l’integrità fisica della persona, in qualsiasi stato si trovi, è un dato di realtà indisponibile alla legge e alla volontà di chiunque (e il fatto che sia indisponibile anche alla volontà della persona stessa è la garanzia necessaria perché la vita umana sia considerata un valore). Lo spazio in cui i membri delle comunità si prendono cura in prima persona dei beni comuni e in prima persona ne rispondono (non si può essere conservatori senza essere autonomisti).

I conservatori devono conservare lo spazio di esistenza del cives, quella “forma umana” che può partecipare – effettivamente e liberamente – della costruzione di un “bene comune” che non è l’esito di una teoria politica, ma il frutto di una negoziazione le cui forme e le cui garanzie sono per l’appunto ciò che solo può essere chiamato democrazia. Spazio di esistenza del cives che è condizione necessaria, ma non sufficiente per la bontà delle scelte, il recupero dei valori, l’evidenza dei principi, l’efficacia delle forme. Queste, se ci saranno, verranno da altro, ma non verranno senza questo spazio. Inshallah…

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