Come si resiste a uno Stato troppo invadente. Reportage dal Venezuela di Chávez
Volo Milano-Caracas. Verso una delle città più pericolose del mondo. In assoluto la capitale del Venezuela è quella con più vittime all’anno: 3.164 nel 2011, con un tasso di omicidi di 98,71 ogni centomila abitanti. L’aereo fa scalo a Parigi ed è in ritardo. Quattro passeggeri che hanno perso la coincidenza vengono dirottati verso Punta Cana, nella Repubblica Dominicana. Due di loro, venezuelani, hanno smarrito la valigia, ma si preoccupano prima che gli stranieri più spaesati giungano a destinazione. Uno è Alberto Lopez (un nome di fantasia come tutti gli altri di questo articolo), ha 24 anni, studia economia a Caracas e partecipa alle manifestazioni del movimento studentesco anti chavista «per dire al mondo che quello che si dice del nostro paese non è vero. Anche se all’estero questo non appare, la gente è stanca della dittatura di Hugo Chávez». In effetti dalle ultime elezioni (ottobre 2012) il presidente è uscito riconfermato ma di poco, nonostante le misure populiste, la propaganda martellante e le molte perplessità sulla correttezza del voto. Come vivete l’incertezza sullo stato di salute del caudillo? Siete preoccupati per il futuro del vostro paese? «Sentiamo l’ingiustizia, ma i venezuelani si adattano facilmente. Siamo abituati a vivere non sapendo cosa accadrà».
Il presidente Chávez, malato di cancro, è ricoverato a Cuba dall’11 dicembre scorso. Il 10 gennaio non ha potuto giurare per il suo quarto insediamento consecutivo. E anche se la Costituzione prevede all’articolo 234 che la mancanza temporanea del presidente debba essere supplita dal vicepresidente per una durata massima di 90 giorni, prorogabili per altrettanti dall’Assemblea nazionale, la Corte suprema ha deciso che Chávez potrà giurare quando starà meglio. In caso di impossibilità definitiva, la legge prevede lo svolgimento di nuove elezioni. Nonostante ciò, e nonostante del suo stato di salute non si sappia nulla, il presidente riesce ancora a far dipendere completamente da sé il paese, rendendolo sempre più incerto e malato, come lui.
«Chávez è come il tumore che lo affligge: non ti determina solo se lo combatti e lo accetti nello stesso tempo». A parlare è Pedro Perez, imprenditore che ha lasciato un posto sicuro in una grande multinazionale per dedicarsi alla formazione di progetti educativi e di sostegno rivolti alle fasce povere della popolazione. Si incontra periodicamente con un’altra ventina di imprenditori che come lui continuano a darsi da fare pur sapendo che da un giorno all’altro lo Stato potrebbe togliergli tutto. Fra loro c’è José Rodriguez. Ha 34 anni e ha cominciato a fare impresa cinque anni fa. «A 26 anni volevo andarmene all’estero – racconta – ma non ho trovavo lavoro. Sono tornato in Venezuela e Perez mi ha proposto di cominciare un progetto di ingegneria informatica per creare un software che porti i tablet nelle scuole superiori, sostituendo libri, quaderni e dizionari, bacheche degli avvisi…». La sede dell’azienda di José è fatta di tre stanze in cui lavorano undici ingegneri neolaureati. All’esterno dell’edificio è d’obbligo il silenzio: «Il tuo accento italiano potrebbe attirare l’attenzione», avverte. La zona non è per niente sicura: hanno ucciso una persona qui pochi giorni fa, «ma spostarmi in unquartiere più tranquillo mi costerebbe troppo», spiega il giovane imprenditore. Il suo progetto è simile a uno del governo che però ha contenuti “univoci”. Lui, invece, vuole potare nelle scuole uno strumento di educazione libera. Sa che più lavora bene più aumentano le possibilità che il governo si appropri dell’idea. Come è già accaduto con la nazionalizzazione di diverse imprese. «La situazione è dura ma non ci determina», continua José. «Il lavoro che faccio è una chiamata: in Venezuela manca tanto, quindi c’è anche molto da costruire. Così quello che può sembrare male diventa bene». José è costretto a ingegnarsi. Cerca “tutele” lavorando con società estere «che poi danno un valore aggiuntivo al prodotto». Certo, ci sono momenti in cui «mi chiedo se ne valga la pena», ammette. Instabilità politica, nessuna sicurezza giuridica: «Sì, ci sono molti ostacoli, ma non sono da solo a portare la mia responsabilità. Ci sono i colleghi e gli imprenditori a cui mi sono legato. Da sé qui non si va avanti».
Scene di ordinaria solidarietà
Tornano alla mente l’attenzione degli studenti sull’aereo, i vicoli bui fuori dall’aeroporto dove la gente povera passa il tempo insieme, fuori di casa. Ci sono gruppetti di persone sparsi per tutta la città, sui marciapiedi, nelle piazze. È difficile vedere qualcuno camminare solo a Caracas. Poi l’immagine del supermercato in cui manca lo zucchero e il solito sconforto di una donna che ne ha già girati due per cercarlo. A lei si avvicina un’altra signora per dirle che ha trovato tre pacchetti, e che due può comprarli lei. La donna accetta, grata, e ne cede uno a una terza signora che ancora cerca fra gli scaffali. Poi i tassisti in gruppo, che alle 11 di sera, dopo una giornata senza orari né turni, ridono di gusto. Il prete che ci accompagna, padre Felix, sorride e cordialmente chiede a uno di loro come sta. «Mai stato meglio amico!», ride quello. E il pensiero va all’Italia, dove c’è molto di più, ma a prevalere è il lamento. «Lo chiamano fatalismo, ma la posizione umana di questa gente è più realista, disincantata», osserva il sacerdote. «I venezuelani hanno visto per 15 anni le loro promesse tradite, non sanno cosa succederà domani, perciò vanno avanti insieme come possono, senza troppe litanie». Le persone qui parlano poco anche di politica, a meno che siano interrogate: «Questo è un bene e un male insieme», dice padre Felix. «Può significare un immobilismo in cui non ci si aspetta più nulla. Ma anche il contrario: in qualche modo bisogna fare, quindi ci si muove comunque. Il desiderio di riscatto nel popolo resta. Anzi è l’unica cosa buona che il presidente ha suscitato tra la gente, pur tradendolo: lo vedo dai buoni risultati raccolti nei corsi di formazione per i detenuti che coordino in 13 carceri».
Generosi nonostante tutto
Lungo la strada dalla parrocchia di padre Felix al ristorante, in una via abbastanza tranquilla da poter essere percorsa a piedi, alcuni ragazzi, vestiti come tutti, cercano cibo fra il pattume. Le mani si stringono alla borsa. E il respiro si ferma quando il cellulare del prete squilla e lui, sempre tranquillo, si blocca improvvisamente lasciandosi andare contro un muro. Alla fine della Messa, celebrata poco prima, aveva ricordato l’episodio del giorno precedente in un’altra parrocchia della città: «Proponiamo di raccogliere fondi per sostenere una comunità che è stata derubata di tutto. Il prete assalito si è ripreso, grazie a Dio». Sapeva di chiedere molto a chi ha poco, ma le risposte dei suoi parrocchiani sono sempre sovrabbondanti. Come quella volta che Felix chiese loro un aiuto economico per 150 bambini e risposero in 400. Il sacerdote finisce la telefonata e spiega pallido: «Hanno distrutto la casa a una donna di settant’anni della nostra comunità, le hanno portato via persino le finestre. Abita a El Tocuyo, la violenza lì sta peggiorando di giorno in giorno». Poi si rivolge a padre Carlos, il sacerdote che vive con lui. Pensano a cosa fare. «Dobbiamo trovare il modo di accompagnare le famiglie delle vittime, perché il dramma della perdita di cose, persino dei propri cari, diventi un cammino». Ora è chiaro perché i due preti si corichino ogni sera posando i pochi averi fuori di casa: «Altrimenti rischi la vita». Le case qui intorno, tutte circondate da filo spinato e inferriate che sono sbarre di prigione, prendono sempre più senso. Si fanno meno lontane, insieme alla paura.
Qui si capisce che la dittatura è peggio che non avere da mangiare. Amica di famiglia di Chávez e sua ex collaboratrice, Carolina Azuaje lo spiega così: «Sono cresciuta sentendo parlare del progetto del presidente. Voleva un paese diverso, senza povertà. Mi diceva: “Voglio che tutti abbiano una casa, che il petrolio sia di tutti”. Eravamo stanchi di quarant’anni di immobilismo. E io l’ho seguito». Ad attrarre fin da subito Carolina è anche il carisma del caudillo. «Sapeva come conquistarti, con lui si lavorava fino alle tre del mattino ed era una continua esplosione di idee». Nel 2006 la donna diventa direttrice del cerimoniale di Stato. «Già vedevo che nonostante gli sforzi di Chávez il paese si impoveriva e peggiorava. Non so giudicare le sue intenzioni, non so se avesse a cuore più il potere o il popolo. Di sicuro lo usava male, il potere. Lasciai il partito e la cosa mi costò cara».
Un bilancio devastante
Un percorso analogo lo ha compiuto il parlamentare Julio César, ex sindaco di Barinas, passato nel 2008 all’opposizione: «La situazione all’interno del chavismo era diventata insostenibile», racconta a Tempi. «Non c’era vera libertà. Mi misero ai margini». La dura lezione costrinse César a una visione più realista. Oggi il suo bilancio è duro: «Dopo 15 anni di instabilità crescente, è chiaro che la politica di Chávez non aveva bisogno di tempo per attuarsi, come chiedeva lui: era sbagliata sin dall’inizio. Oggi non c’è una visione né una struttura economica che possano sostenere il paese: la produzione e l’esportazione dei privati sono state quasi azzerate; il 70 per cento della merce viene importato; l’inflazione è la più alta dell’America latina, molto maggiore del 22 per cento dichiarato a fine anno. L’autonomia della politica è inesistente, la Costituzione è violata dal potere giudiziario». César non sa cosa potrebbe succedere se e quando Chávez dovesse morire. Non sa se l’opposizione sarà in grado di lavorare con i cosiddetti chavisti moderati, o se fra loro ci sarà una guerra, «ma non posso smettere di provare a fare qualcosa». Con quale idea? «Bisogna tentare un dialogo tra le diverse correnti dell’opposizione. Il governo ha monopolizzato tutto ed è difficile vedere una via d’uscita, ma devo cercarla ogni giorno. L’alternativa è restare fermi». César non sa nemmeno quando sarà convocato il Parlamento, e parla di pazienza. Solo questa, secondo lui, «mette alla prova la verità dei fatti». Ma per ora non si vedono orizzonti.
Ed è difficile immaginarne uno, di orizzonte, entrando nelle favelas in cui vive il 60 per cento della popolazione di Caracas. La povertà peggiore qui non è quella economica, ma quella umana. Fra catapecchie costruite sul ciglio di fiumi di pattumiera e discariche sbucano antenne paraboliche e insegne di McDonald’s. Mentre tra le baracche affastellate e i ricchi palazzi si erge un manifesto propagandistico: “Todo para el bien de todos!”. Uno slogan che fa emergere la contraddizione. Ma al centro del ponte che collega la baraccopoli all’area dell’università cattolica, appare il Centro di Salute Santa Ines, un clinica medica e di assistenza giuridica di alto livello. Qui vengono i poveri a curarsi, mentre gli studenti dell’università prestano assistenza gratuita. Con noi c’è anche Ana, una bimba di nove anni. È la figlia di Perez. Cosa pensi quando guardi le favelas? «Penso alla signora Maria che da qui viene fino a casa ad aiutarci nelle pulizie». Ci mette ore Maria ad attraversare la città. Un groppo sale alla gola di Perez che guarda il primo frutto dell’educazione in cui crede, cresciuto lentamente e curato con fatica. Pensa al «contrario della veloce rivoluzione che ha distrutto il paese», all’unica via di uscita appunto. «A guardare la persona ci ha costretti la dittatura», aggiunge la professoressa Linda Marquez. «Altrimenti, nella contrapposizione tra alunni chavisti e antichavisti, non si costruisce nulla».
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