Come ridurre le emissioni senza farsi prendere dall’eco-ansia
Tra “negazionisti” che sostengono il problema non esista e catastrofisti che rinunciano ad avere figli per evitare loro un ipotetico drammatico futuro, la posizione più ragionevole sul tema del cambiamento climatico è, a parere di chi scrive, quella dell’economista statunitense Tyler Cowen che qualche mese fa sul suo blog Marginalrevolution ha scritto: «Semplicemente non possiamo continuare a produrre quantità crescenti di emissioni di anidride carbonica per secoli e secoli. Abbiamo quindi bisogno di una traiettoria in cui – a un ritmo che possiamo discutere – le emissioni di CO2 finiscano per diminuire. Il cambiamento climatico non è in realtà un rischio esistenziale, ma potrebbe portare alla distruzione della civiltà se continuassimo ad aumentare le emissioni di carbonio senza fine. Non conosco uno scienziato serio che contesti questa affermazione».
«Bisogna agire». Ma già stiamo agendo sulle emissioni
Come ha scritto il presidente della Repubblica, «bisogna agire». Il monito di Sergio Mattarella sembra però non considerare il fatto che stiamo già agendo. Italia, Europa, Stati Unti e altri paesi a medio-alto reddito hanno già intrapreso da un paio di decenni un percorso di riduzione delle emissioni. Sono invece più che raddoppiate quelle di paesi in forte crescita come India e Cina.
Di conseguenza, è sensibilmente diminuita la quota di emissioni che vengono generate in Occidente: in particolare i paesi che appartengono all’Unione Europea pesavano per il 17 per cento della CO2 mondiale nel 1990 e per il 7 per cento nel 2021; la quota dell’Italia nello stesso periodo è diminuita dal 2 allo 0,9 per cento.
Di fronte a questa tendenza passata e destinata a proseguire nei prossimi anni molti sono sono probabilmente tentati dal dire: non facciamo nulla, tanto il risultato finale non dipende dai nostri sforzi. Se però tutti ragionassero in questo modo le conseguenze sarebbero quelle indesiderabili descritte da Cowen. L’atteggiamento corretto è un altro.
Emissioni. Si dovrebbe regolare meno e meglio
Preso atto che la “partita del clima” si giocherà per noi soprattutto in trasferta, occorrerebbe agire di conseguenza abbandonando l’approccio sovranistico (“prima le emissioni a casa nostra”) e pianificatorio con la definizione di obiettivi complessivi (l’azzeramento delle emissioni al 2050) e settoriali, divieti, sussidi finora seguito dall’Unione Europea. Un approccio i cui costi sono stati stimati pari a dieci volte i benefici. Si dovrebbe regolare meno e meglio.
Scriveva qualche anno fa Paul Krugman, economista liberal non sospettabile di simpatie mercatiste, che «tassare le emissioni è meglio della regolamentazione diretta. Ogni economista conosce gli argomenti: gli sforzi per ridurre le emissioni possono avvenire lungo molti “margini” e dovremmo dare alle persone un incentivo a sfruttare tutti quei margini. I consumatori dovrebbero cercare di utilizzare meno energia da soli? Dovrebbero spostare il loro consumo verso prodotti che utilizzano relativamente meno energia per la produzione? Dovremmo cercare di produrre energia da fonti a basse emissioni o da fonti senza emissioni? Dovremmo provare a rimuovere la CO2 dopo che il carbonio è stato bruciato?».
La risposta, spiegava Krugman, «è: tutto quanto sopra. E dare un prezzo alle emissioni di CO2, infatti, dà alle persone un incentivo a fare tutto quanto sopra. Al contrario, sarebbe molto difficile stabilire regole per raggiungere tutti questi obiettivi; infatti, anche calcolare le emissioni comparative da una semplice scelta, come guidare o volare in una città a poche centinaia di miglia di distanza, non è affatto un problema semplice. Quindi la carbon tax è la strada da percorrere».
Cosa non va nelle politiche per la mobilità sostenibile
Si tratterebbe di una misura efficiente ed equa in quanto farebbe ricadere il costo del danno arrecato su chi ne è direttamente responsabile e non sui contribuenti nel loro insieme, come invece accade con sussidi e investimenti pubblici, spesso inefficienti e inefficaci. Esemplari sono, al riguardo, le cosiddette politiche per la mobilità sostenibile. Poiché le emissioni del settore stradale in Europa sono fortemente tassate (più di 300 euro per ogni tonnellata di CO2 emessa considerando le sole accise, 800 euro se si tiene conto di tutte le forme di prelievo che gravano sul settore), gli incentivi per l’acquisto di auto elettriche o per spostare la domanda verso modi di trasporto con minori emissioni non sono auspicabili perché comportano un costo di abbattimento troppo elevato rispetto al beneficio ottenuto.
Analogo ragionamento si può fare per gli investimenti, in particolare quelli per le ferrovie fortemente voluti da Bruxelles in nome della sostenibilità. Più di mille miliardi di euro sono stati trasferiti alle imprese ferroviarie europee solo tra il 2001 e il 2015, senza alcun effetto di un qualche rilievo sulla scelta del mezzo di trasporto: la quota di mercato della ferrovia in Europa nel 2018 era pari al 7 per cento, solo lo 0,1 in più rispetto al 1995.
Quella della carbon tax è una scelta politicamente difficile perché non consente di nascondere sotto il tappeto il costo della transizione. Ed è osteggiata dai burocrati che vedrebbero fortemente limitato il loro potere discrezionale, così come da coloro che oggi beneficiano del trasferimento di ingenti risorse dei contribuenti.
Eppure, accompagnata da un trasferimento di una parte delle risorse raccolte verso i paesi più poveri dove, come abbiamo visto, le emissioni crescono rapidamente e dove, però, abbatterle è relativamente meno costoso, sarebbe l’opzione che meglio risponde all’interesse collettivo della generazione attuale e di quelle future.
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