La preghiera del mattino

La coerenza di Grillo perfettamente al servizio dell’establishment

Beppe Grillo
Foto Ansa

Su Formiche Ferdinando Adornato dice: «Non riduca il presidenzialismo ad ennesima bandierina elettorale. Se lo agita come vessillo prima del voto rischia di incappare nello stesso errore di tante riforme costituzionali del passato, bocciate solo perché il proponente non era gradito. Deve convincere il paese, compresa la sinistra».

Ormai in tanti ambienti ci si sta abituando alla possibilità che un centrodestra guidato da Giorgia Meloni possa vincere le elezioni politiche del 25 settembre. In questa prospettiva Adornato fa una considerazione particolarmente condivisibile: le proposte di riforme costituenti che oggi sono assolutamente indispensabili (dalla magistratura alla presidenza della Repubblica, dal sistema bicamerale a quello del decentramento e delle autonomie) dovrebbero essere fatte da un centrodestra di governo con il massimo spirito di apertura all’opposizione e alla società italiana.

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Su Huffington Post Italia Gabriella Cerami scrive: «Il Nazareno è una war room impazzita in cui il segretario Enrico Letta e il coordinatore della segreteria Marco Meloni studiano il difficile gioco di incastri delle candidature tra vecchi e nuovi volti, alternanza uomo-donna, esterni, catapultati e infiltrati, società civile, ex amici ora di nuovo amici».

Anche considerando lo spessore dei due leader che hanno guidato il Pd in questi anni – Nicola Zingaretti (in realtà portavoce di Goffredo Bettini) e il prefetto francese Enrico Lettino – lo stato di confusione nel partito erede del Pci (quello che ha messo le truppe) e della Dc (quella che ha messo i generali), appare obiettivamente impressionante. In realtà stanno venendo al pettine i nodi intrecciati con la insensatamente frettolosa e scomposta riduzione di un terzo dei parlamentari. In un’organizzazione come il Pd dove non c’è alcun gruppo dirigente nazionale veramente autorevole (al contrario di quel che avviene tra i competitori di Fdi, Lega e Fi), in ogni provincia sta scoppiando una rivolta. La vecchia tattica del Pci (e in parte della Dc) di sacrificare qualche proprio eletto per allargare le alleanze, non regge quando quelli che puoi far “passare” sono tagliati nella misura di un terzo. Mi chiedo come mai i cosiddetti dirigenti piddini non abbiano pensato prima allo scenario che oggi si prospetta. La spiegazione? Pensavano che il potere gli sarebbe stato ancora una volta offerto da un qualche Giorgio Napolitano o Sergio Mattarella (o da qualche procura), senza bisogno di fondarlo su quel rito noioso e obsoleto rappresentato dal voto popolare.

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Su Startmag Marco Dell’Aguzzo scrive: «La quotazione alla borsa olandese dovrebbe avvenire verso la metà di agosto. Una volta ottenuta l’ammissione al mercato finanziario Euronext Amsterdam, la holding procederà con la richiesta di delisting delle sue azioni ordinarie dall’Euronext Milano. Considerato il regolamento di Borsa italiana, la società che gestisce la borsa di Milano, sono necessari almeno quarantacinque giorni. In quest’arco di tempo, prima del completamento del processo di delisting, le azioni ordinarie di Exor risulteranno quotate sia sull’Euronext Milano che sull’Euronext Amsterdam».

Tra la metà e la fine degli anni Novanta Gianni Agnelli ha avviato la separazione dei destini del gruppo Fiat da quelli dell’Italia: l’atto decisivo di questa scelta è stato l’abbandono di Enrico Cuccia, sconfitto grazie all’abbandono di Torino nella sua Mediobanca. L’operazione viene poi completata da John Elkann fino all’operazione di delisting della Exor da piazza Affari. Resta solo una presenza editoriale collegata a Elkann che serve a coprire alle spalle la ritirata: una funzione che spiega come mai i quotidiani elkaniani siano i più tenacemente impegnati a impedire che la politica nazionale possa recuperare un qualche margine di autonomia.

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Sul Post Alessandro Di Meo scrive: «La regola dei due mandati è stata uno dei cardini del Movimento fin dalla sua fondazione, e uno dei punti su cui il partito ha costruito maggiormente la sua identità antisistema, oltre che la credibilità agli occhi degli elettori. Nella visione di Beppe Grillo e degli altri fondatori del partito doveva impedire agli eletti di fare della politica una “professione”, e li avrebbe portati a mantenere un contatto con la società fuori dai “palazzi della politica”, perché ci sarebbero tornati una volta esauriti i due mandati».

Anche persone che assolutamente stimo e a cui voglio particolarmente bene, hanno considerato con qualche attenzione, talvolta quasi con simpatia, la coerenza di Beppe Grillo che è riuscito a fare molte delle cose che aveva proposto all’elettorato nel 2018. Cioè tagliare le pensioni ai parlamentari, ridurre il numero di senatori e deputati, applicare la regola dei due mandati agli eletti grillini. In un’Italia in cui non si mantengono le promesse, questi risultati possono essere considerati sorprendenti. In realtà nel nostro paese non è affatto difficile destrutturare la democrazia, come hanno fatto sistematicamente i seguaci del pagliaccio genovese: larga parte della classe dirigente ha fastidio per un potere espressione del voto popolare che seleziona anche “poveri” ai quali bisogna assicurare una pensione se si impegnano in politica, che si consolida se vi è un legame stretto tra territorio ed eletti, che ha bisogna di politici che “durino” perché non diventino pura espressione di movimenti di opinione inventati per destabilizzare la politica. L’impegno di Grillo è stato tutto mirato nel senso di accarezzare la vocazione a un potere non contendibile di establishment peraltro sfiatati. Da qui il suo successo, e per chi non apprezza il sovversivismo delle classi dirigenti, un’altra ragione per contrastarlo.

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