Pubblichiamo la rubrica di Maurizio Tortorella contenuta nel numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
Alla fine deciderà la Corte costituzionale. Ma non c’è da stare tranquilli, perché è veramente una brutta storia, da qualunque parte la si guardi. Ed è brutta fin dall’inizio: cioè dal giugno 2015, quando la Corte dei conti, impegnata nell’aggiornamento annuale dell’anagrafe dei “soggetti pubblici titolari di gestioni di denaro, beni o valori assoggettabili alla resa del relativo conto”, si accorge che il Consiglio superiore della magistratura quel conto non lo rende e ultimamente non lo ha mai reso: non dal 2014, ma dal 1997. Ora, viene da domandarsi perché mai in Italia debbano trascorrere 19 anni perché un ufficio della giurisdizione scopra l’inadempienza di un altro ufficio pubblico. Di per sé, è già uno scandalo.
Ma passiamo allo scandalo sovrastante. I giudici contabili, che giustamente vogliono verificare come il Csm utilizzi un bilancio mediamente sui 35 milioni di euro, bussano alla porta del vicepresidente Giovanni Legnini. E ovviamente a quel punto inizia un duello burocratico, a colpi di delibere e controdelibere. La Corte dei conti chiede trasparenza, ma il Csm risponde picche: perché si ritiene non soltanto organo di rilevanza costituzionale, ma addirittura “organo supremo dello Stato”, e in quanto tale non ha alcun dovere di rendicontazione in base a una sentenza della Consulta, che nel 1981 ha stabilito questa anomala guarentigia per tre organi costituzionali, cioè il Parlamento, la presidenza della Repubblica e la stessa Corte costituzionale.
Tra «superbia» e «gravi lesioni»
Non si sa in base a quali caratteristiche il Csm abbia stabilito dove collocarsi, né (francamente) se abbia ragione. Sta di fatto che sbatte la porta in faccia alla Corte dei conti. Del resto, spiega il segretario generale del Consiglio, «la nostra regolarità contabile è garantita da elevate e specifiche professionalità», ovviamente interne al Csm, e da «controlli puntuali, seri e costanti».
La Corte dei conti insiste, non molla la presa (né, del resto, si vede perché dovrebbe): il 21 febbraio una sentenza intima tassativamente al Csm di presentare il rendiconto entro 120 giorni. Il 4 marzo, all’inaugurazione dell’anno giudiziario, Ivan De Musso, che è il presidente della sezione Lazio della Corte, attacca le resistenze del Csm. Critica duramente «il peccato di superbia (…) mosso dall’insofferenza istituzionale di essere sottoposto al controllo di un altro organo dello Stato di cui non si riconosce l’autorità». Ma anche questa polemica pubblica non serve a nulla. Anzi, a quel punto lo scontro si alza ancora e Legnini decide di investire della questione la Corte costituzionale. Come da copione, nel suo ricorso, il Csm lamenta (orrore!) la «grave lesione dell’autonomia costituzionale della magistratura».
E la spending review?
Ora, è probabile che dovendo valutare una questione che afferisce all’organo di governo della magistratura, i magistrati della Consulta scoprano il consueto spirito di casta, quello che ha fatto loro decidere che l’unica retribuzione pubblica che non può vedere sminuita la rivalutazione annuale è (guarda caso) quella dei magistrati.
Però va detto che, soprattutto in quest’era di (presunta) “spending review” e di diffusi tagli di spesa, anche il Csm potrebbe e forse dovrebbe mostrare una qualche, seria sensibilità sul tema. Senza arroccarsi a difesa di prerogative decisamente fuori tempo massimo. Di logica. E soprattutto fuor di ragione.
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