“Chi di voi si dedica al volontariato?”. In una sala gremita si alzano insieme 200 mani. Nulla di strano, se non fosse che non si tratta dell’ultimo incontro Caritas: siamo nell’Auditorium della sede milanese dell’Assolombarda, per il convegno internazionale “Bilancio sociale: tendenze e esperienze a confronto” organizzato lo scorso 13 ottobre da Sodalitas, associazione per lo sviluppo dell’imprenditoria nel sociale (cui aderiscono gruppi come Abb, Telecom, Ibm, Levi Strauss, Unilever, solo per citarne alcuni). Alla faccia del tanto paventato “turbocapitalismo” e del suo regime spietato fatto di licenziamenti selvaggi, distruzione dell’individuo, della famiglia e della società in nome di profitti immediati. “Siamo consapevoli dell’importanza assunta dall’impatto etico di un’azienda – spiega Diana Bracco, presidente di Sodalitas – per questo vogliamo diffondere, approfondire e tradurre in progetti le nuove espressioni di una cultura d’impresa sempre più attenta alle problematiche sociali”.
Più società fa bene all’indice Dow Jones La responsabilità sociale sembra in effetti la grande sfida per l’imprenditoria del futuro: in America – dove certi processi da noi appena avviati sono già realtà – negli ultimi dieci anni tutte le grandi aziende si sono rese conto della necessità di un rapporto diverso tra impresa e società, che tenga conto non solo di profitti e bilanci, ma anche degli interessi pubblici, delle aspettative delle comunità locali, dei cittadini e del personale impiegato. L’impresa si impegna cioè in un dialogo con tutti gli interlocutori interni ed esterni e viene sollecitata ad agire in ruoli diversi da quelli istituzionali. Un impegno che incide sensibilmente sulla sua immagine e può avere un ritorno significativo sul comportamento di consumatori e investitori. Lo dimostra una breve tabellina pubblicata dall’Economist l’11 settembre scorso, dove si registrano le performance raggiunte da 200 imprese statunitensi attente a misurare il loro impegno a favore della comunità. Dal ’93 ad oggi l’indice Dow Jones di queste aziende è cresciuto di ben 6 volte (in certi casi il 50% di resa in più rispetto ai concorrenti). Per non parlare della crescente fortuna negli States dei fondi di “investimento etici”. Ecco allora l’importanza del “bilancio sociale”, cioè un “rendiconto trasparente sui risultati delle iniziative aziendali finalizzate alla creazione di valore sociale”. In pratica un rapporto che dia una misura (e fornisca una garanzia) del comportamento irreprensibile dell’azienda nella sfera sociale e ambientale.
Il marchio di qualità (morale) Al convegno di Sodalitas ne hanno parlato i portavoce di imprese leader (Agip Petroli, British Telecom e Telecom Italia) oltre a esperti autorevoli come Simon Zadek, presidente dell’Isea (Institute of Social and Ethical Accountability), Francesco Vermiglio, presidente del Gruppo Bilancio Sociale e Roberto Marziantonio, presidente Sean (Social&Ethical Auditing&Accounting Network). Il risultato è stato un quadro complessivo aggiornato per chi volesse avvicinarsi alle nuove forme di rendicontazione sociale e una riflessione sulle grandi possibilità di iniziativa delle imprese – supportata anche dai dati di un sondaggio condotto l’anno passato da Sodalitas, per cui l’80% degli italiani si dichiarano favorevoli all’intervento delle aziende nella soluzione di problemi sociali. Già, ma chi controllerà che le imprese rispettino sul serio gli impegni presi? Uno dei problemi è infatti stabilire degli standard oggettivi capaci di misurare l’impegno etico e sociale. Nasce per questo in Italia Social Accountability 8000: “Ogni azienda si trova sotto l’occhio giudice di consumatori, associazioni, lavoratori e non ultimi i media, che valutano i prodotti non solo in base alla qualità intrinseca (genuinità e funzionalità) ma anche in base a un complesso sistema di attributi che sempre più vanno a toccare aspetti legati all’ambiente e al sociale – spiegano i rappresentanti di SA8000 presenti in sala con Mariella Pozzoli, responsabile di certificazione – da qui il bisogno dell’azienda di evidenziare la Correttezza e la qualità morale della propria offerta”. Dopo la certificazione ISO arriva dunque questa nuova valutazione che impone il rispetto (sull’intero percorso impresa-fornitori-subfornitori) delle principali convenzioni internazionali (Organizzazione internazionale del lavoro; Dichiarazione universale dei diritti umani; Convenzione della Nazioni Unite per i Diritti del bambino) e “avendo la caratteristica di non essere imposta dalla legge, ma adottata volontariamente, è più credibile”. Un osservatore spiega che, al di là dei lievemente risibili “certificati morali d’impresa”, questo interesse del capitale per la società, potrebbe col tempo contribuire alla formazione di una ben più solida (almeno per quanto riguarda l’Italia) cultura no-profit, una ricchezza straordinaria che nel nostro paese è ancora trascurata, in un momento in cui il welfare statalista mostra di attraversare una crisi ormai irreversibile. Non a caso, e col dichiarato obbiettivo di “trasmettere esperienza manageriale propria del mondo industriale” Sodalitas offre consulenza gratuita alle società no-profit.