Il padre messo al gabbio dalla legge Zan canadese

Di Caterina Giojelli
15 Aprile 2021
Canada, l'arresto di Robert Hoogland che ha violato il silenzio, imposto dal tribunale, sulla transizione di genere della figlia minorenne.
Canada, Robert Hoogland è stato arrestato per essersi opposto alla transizione di genere avviata dai medici senza il suo consenso sulla figlia minorenne

Aggiornamento del 19 aprile 2021. Come segnalato dal Feminist Post Robert Hoogland è stato condannato a sei mesi di carcere per oltraggio alla corte e 30 mila dollari di multa. Una pena, accolta dal papà canadese con «stoica accettazione», che secondo il suo avvocato Carey Linde non può che essere eccessiva: Hoogland non ha precedenti, si è già dichiarato colpevole e ha risparmiato alla corte le spese di un processo.

Non ci sarà alcun processo, Robert Hoogland ha ammesso di aver violato gli ordini della Corte Suprema della British Columbia che gli impedivano di parlare pubblicamente del “suo caso” – quello di un padre che si oppone alla transizione di genere avviata dai medici senza il suo consenso sulla figlia minorenne -, patteggiando col procuratore generale una pena pari a 18 mesi di libertà vigilata. Se il giudice accetterà i termini del patteggiamento (la decisione che dovrebbe essere stata presa in queste ore non è ancora stata resa pubblica), Robert Hoogland verrà rilasciato dal centro di detenzione canadese North Fraser. Rischiava cinque anni di carcere.

Arresto e incarcerazione (con tanto di libertà su cauzione negata) risalgono al 16 marzo, ma il “suo caso” inizia nel 2017: è allora che Hoogland scopre che sua figlia, a soli 12 anni, viene trattata come un maschio da tutta la scuola e che, aiutata dal suo consulente scolastico, ha scelto anche un nuovo nome maschile. Fino ad allora nessuno lo aveva informato: le direttive Sogi (Sexual Orientation and Gender Identity) alle quali il ministero della Pubblica istruzione ha imposto agli istituti della British Columbia di adeguarsi, proteggono la riservatezza dello studente e conoscere sesso genere o nome preferito della ragazza a scuola non è prerogativa del genitore.

La Corte esautora i genitori

Tempi vi aveva già raccontato qui la drammatica vicenda di Hoogland (seguita e a più riprese aggiornata dal The Federalist) che porterà, il 27 febbraio 2019, all’incredibile sentenza con cui Corte Suprema della British Columbia ha stabilito che una quattordicenne può sottoporsi a un trattamento a base di iniezioni di testosterone per cambiare sesso senza il consenso dei suoi genitori. E che se madre o padre venissero sorpresi riferirsi a lei utilizzando un pronome femminile, o chiamandola col suo nome di nascita, o ancora cercando di farla desistere dal trattamento, sarebbero stati riconosciuti colpevoli di violenza familiare ai sensi del Family Law Act.

La sofferenza di una bambina

Usando pseudonimi o iniziali riportate nei documenti legali, in seguito alla sentenza Hoogland inizierà a rilasciare interviste sul “suo caso”, quello di un papà di una ragazzina che in seguito alla separazione dei genitori (quando aveva 10 anni) ha iniziato a manifestare grande fragilità, autolesionismo, infatuazione per i suoi professori, una “fase lesbica”, un tentativo di suicidio che secondo la sua mamma (e la scuola) è da attribuirsi alla disforia di genere (un coming out scattato, secondo il National Post, dopo che la ragazza è incappata su YouTube nel cortometraggio danese Boy, che racconta lo scontro tra Emilie, una ragazza transgender, e sua madre).

Testosterone senza consenso

All’insaputa del padre la ragazzina inizia così ad essere seguita da un celebre psicologo e attivista Lgbt che la indirizza a un ospedale pediatrico per iniziare a ricevere iniezioni di testosterone: è qui che iniziano i guai, la ragazzina ha ormai quasi 14 anni ma le serve il consenso di entrambi i genitori per procedere al trattamento. Il padre si rifiuta, convinto che per la ragazzina sia bene aspettare la maggiore età per prendere qualunque decisione definitiva sul suo corpo e la sua identità di genere, tuttavia viene informato, attraverso una lettera firmata da un medico del BC Children’s Hospital, che il trattamento inizierà lo stesso ai sensi del BC Infants Act senza autorizzazione dei genitori: «Il team concorda che il trattamento proposto è nel suo migliore interesse (…) né lei né sua madre potete prendere questa decisione per lui».

“Lui”: preoccupato della natura ancora sperimentale della cura e dagli effetti irreversibili del testosterone, nonché convinto che non sia il desiderio represso di una bambina di diventare maschio la causa della sofferenza di sua figlia, quanto un effetto di tale sofferenza, Hoogland porta il caso alle corti provinciali, il National Post lo sbatte in copertina sollevando il quesito: chi decide il migliore interesse di un ragazzino? Il ragazzino stesso, i medici o i genitori?

Dai pronomi all’arresto

Il caso, va da sé, diventa giudiziario e politico: per un anno Hoogland collabora con le corti e rispetta il silenzio imposto dalle sentenze sperando che il trattamento venga bloccato da un tribunale. Fallito ogni tentativo, minacciato di arresto da un altro giudice nel 2020 se si fosse rifiutato di collaborare alla transizione della figlia biologica e avesse insistito con atti di violenza familiare come riferirsi a lei con nomi o pronomi femminili, l’uomo decide allora di tornare a denunciare pubblicamente la sua storia. Lo fa omettendo sempre il nome della bambina, non il proprio, non quello dei medici che l’hanno avviata alla transizione (nomi che comparivano in documenti legali e pubblici), infrangendo i divieti di anonimato e riservatezza imposti dalla Corte.

Spunta fuori un lungo rapporto della Vancouver Cybercrime Unit che documenta ogni volta in cui l’uomo ha citato i medici e si è riferito pubblicamente a sua figlia come a una femmina e ha usato i pronomi femminili al posto di quelli maschili. Segue l’arresto.

La legge Zan canadese

«Questo non potrebbe mai accadere, dicevano quanti definivano allarmista la mia posizione contro la Bill C16», ha commentato il professore di psicologia dell’Università di Toronto, Jordan B. Peterson, protagonista di un’infuocata battaglia contro la legge voluta da Trudeau che dal 2017 aggiunge “identità o espressione di genere” all’elenco dei motivi di discriminazione vietati nel Canadian Human Rights Act e all’elenco delle caratteristiche dei gruppi identificabili protetti dalla propaganda d’odio nel codice penale.

Allora Peterson preconizzava un futuro in cui un canadese sarebbe stato incriminato se si fosse rifiutato di utilizzare i pronomi di genere. Gli diedero del visionario bigotto, proprio come accade a chi oggi contesta la legge Zan che al pari della Bill C-16 consegna spazio immenso alla discrezionalità interpretativa del giudice circa cosa rappresenti libera manifestazione di pensiero o condotta discriminatoria da punire in ambito pubblico o privato. «Ho letto la legge e al contrario, era inevitabile», dice Peterson del caso Hoogland. Inevitabile quanto il fatto che un padre violasse una legge bavaglio: «Voglio che mia figlia sappia che ho fatto davvero tutto il possibile, semmai tra 5 o 10 anni dovesse pentirsi di ciò che le hanno fatto subire da bambina».

Articoli correlati

0 commenti

Non ci sono ancora commenti.