Da un lato le polemiche su sbarchi, Mare nostrum e Frontex plus. Dall’altro il silenzio sul report Istat, pubblicato il 12 dicembre, sull’interruzione volontaria della gravidanza, nella parte che riguarda le donne straniere. L’aborto “legale” è praticato più dalle immigrate che dalle italiane, e questa non è una novità: nel 2012 il ricorso a esso è avvenuto da parte di 7,6 su mille donne in età fertile presenti in Italia, ma il dato riguardante le straniere è più alto; le migranti che hanno praticato l’ivg sono infatti il 34 per cento del totale delle donne che hanno abortito in Italia, mentre è stimata all’11 per cento la popolazione femminile straniera presente fra noi in età compresa fra i 15 e i 49 anni.
In altri termini: una donna su dieci in Italia è di origine straniera, ma fra le donne che abortiscono una su tre è straniera. Distinguendo per Stati di origine, su una media di 7,6 per mille che abortiscono, le donne cinesi presenti in Italia che nel 2012 hanno abortito sono state 34,6 per mille, le rumene il 25,9, le albanesi il 19,8.
Perché queste cifre non animano il dibattito? Dove sono i professionisti del buonismo, pronti a ostacolare qualsiasi tentativo di regolare il fenomeno migratorio in nome dell’accoglienza indiscriminata, ma altrettanto ignari di un aspetto così problematico, che interessa le donne, una volta che giungono in Italia?
Non si tiri fuori la storia della povertà, che, certo, può far comprendere taluni casi, ma è inadeguata a inquadrare il fenomeno nel suo insieme: se valesse un rapporto causa-effetto collegato al livello del reddito, si dovrebbe spiegare perché mai la Regione col più elevato tasso di abortività, a prescindere dalla cittadinanza, è la Liguria (10,2 per mille), seguita da Puglia, Emilia Romagna e Piemonte, mentre la Calabria è in coda, col 6,2. Soprattutto si dovrebbe spiegare perché, sempre nel 2012, nei paesi di provenienza il tasso di interruzione della gravidanza delle donne in età fertile è stato sensibilmente inferiore: in Cina al 18,5 per mille, in Romania al 18,6, in Albania al 19,8.
Si viene da noi per avere qualche risorsa finanziaria in più, e magari, confrontando quel che si è lasciato, il bilancio è positivo, ma in parallelo si abortisce di più. Come mai? È un quesito che è tanto più necessario porsi se si pensa che nei contesti di origine, nonostante legislazioni abortiste ancora più larghe della nostra, il rispetto per la vita nascente, e anche di quella prossima a concludersi, è ancora sentito; è quel che ci fa apprezzare non poche migranti nella collaborazione familiare, con i bambini e/o con gli anziani.
Viene il dubbio se non abbiamo qualche responsabilità, quando, per esempio, la solidarietà sbandierata nell’opporsi alle espulsioni o ai respingimenti di chi non ha titolo per entrare in Italia si dilegua allorché una migrante decide di abortire con tassi superiori a quelli della terra che ha lasciato (perfino della Cina, con l’imposizione del figlio unico). È che da tempo chi ha fatto dell’aborto “legale” un dogma dell’agire politico ha abbandonato l’ipocrisia della scelta di necessità – di cui pure vi è traccia nella legge 194 – per passare alla rivendicazione dell’Ivg come “diritto”.
Il sistema dei consultori e dei servizi sanitari – dal quale viene tenuto rigorosamente a distanza il personale obiettore – indirizza alla soppressione del feto in modo quasi automatico. Chi vive una gravidanza non attesa in un paese che conosce poco si ritrova priva di conforto e di aiuto: quel conforto e quell’aiuto che, come sperimentano i centri di aiuto alla vita, spesso ridimensionano le difficoltà e aprono alla nuova esistenza. Nell’immigrazione in Italia c’è anche questa dimensione: quella di chi, avendo ruoli istituzionali e politici, si impegna a impedire che un probabile terrorista sia ricondotto a casa sua, e poi non spende un minuto per chiedersi come aiutare una giovane straniera a far nascere il proprio bambino.