Bruni: «La manovra perfetta è quella che incentiva gli onesti»
L’idea è semplice. Per Luigino Bruni, professore ordinario di economia politica a Milano Bicocca ed editorialista del quotidiano della Cei Avvenire, la soluzione della crisi va cercata nelle aule di università. Come per gli esami che si svolgono all’estero, permettendo agli studenti di consultare i libri, e considerando ogni alunno un potenziale onesto, una riforma fiscale per funzionare deve considerare il cittadino un virtuoso da premiare, non un disonesto da punire. A Tempi.it Bruni spiega come e perché questo atteggiamento permetta di uscire anche dalla precarietà dilagante: «La soluzione della crisi viene da ciascun cittadino che si fa imprenditore, da un popolo unito di cittadini imprenditori che si mettono in network tra loro».
Professor Bruni, ci spiega che cosa c’entrano gli studenti e gli esami con una riforma fiscale davvero efficace?
Traccio una metafora, partendo dall’esperienza con gli studenti. Il modo di fare gli esami all’estero, con la possibilità di consultare i libri, funziona meglio, perché elimina alla radice il problema di chi cerca sempre di copiare. In Italia facciamo esami con una mentalità molto latina, partendo cioè dal presupposto che ci sarà sempre una percentuale di studenti da punire perché copiano. Quindi si sceglie di premiare l’apprendimento mnemonico: e così si finisce per incentivare la trasgressione. Perché in questo modo ci sarà sempre chi cercherà di farsi più furbo del prof., escogitando nuovi modi di copiare anziché studiare. Ho anche visto che inasprendo le “sanzioni”, ho finito solo per punire più studenti. Poi insegnando in Svizzera e in America ho notato che gli studenti lì possono portare il libro all’esame e consultarlo, è il sistema “open book”. Io, come docente, sono costretto a fare domande più di ragionamento, ma gli studenti non copiano e lavorano meglio. Con questo sistema educativo, passa il messaggio che io, “autorità”, non ti vedo come un potenziale disonesto. Ecco: questo mi ha fatto pensare alla riforma fiscale. In Italia si fanno le riforme partendo dall’ipotesi che tutti siano furbi e disonesti, e quindi si lavora con una logica punitiva.
Si spieghi meglio. Perché questo sarebbe sbagliato?
Mi torna in mente Giacinto Dragonetti, un giurista contemporaneo di Cesare Beccaria, che un anno dopo “Dei delitti e delle pene” di Beccaria, scrisse il suo “Delle virtù e dei premi”. Nell’introduzione c’è questa bellissima frase: «Finora gli uomini hanno fatto milioni di leggi per punire i delitti e non ne hanno stabilita pur una per premiare le virtù». Questa bella intuizione è anche alla base dell’umanesimo napoletano: che le leggi debbano essere anche un incentivo a premiare le virtù e gli onesti. Un umanesimo che si è molto diffuso (pensiamo anche a Melchiorre Gioia) fino al codice napoleonico. L’idea di fondo è che un sistema politico che parta dall’ipotesi di aver a che fare con mascalzoni e ignoranti finisce solo per incentivare i disonesti. Nell’umanesimo napoletano c’è meno l’idea hobbesiana dell’homo hominis lupus e piuttosto l’idea che le persone, tendenzialmente, sono per bene e che sbagliano quando i sistemi e le istituzioni sono fatte male. In Francia e Svizzera oggi ne discute un filone di autori, come Alter, secondo cui nei lavoratori c’è una grande spinta a far bene e non ad agire con furbizia. Se fai così è perché percepisci il capo o l’azienda come qualcosa contro di te. Io sono convinto come Dragonetti che i lavoratori non siano tutti dei furbacchioni che vanno controllati. Un infermiere, un medico, un giornalista, se si sentono stimati, lavorano meglio.
Complice la crisi della finanza, a giugno l’Istat ha registrato 14 mila posti di lavoro in meno, mentre a crescere sono soprattutto i lavoratori a tempo determinato o part time. E secondo il rapporto Svimez dello scorso luglio, nel meridione l’occupazione giovanile è al 31 per cento (cioè solo un giovane su tre lavora). Di fronte all’attuale precarietà come è possibile che un lavoratore si senta stimato? Che cosa propone per uscire da questo stato di crisi?
La precarietà c’è ed è una conferma che il sistema è diventato critico. Per quanto riguarda la soluzione, rifletto su un punto. Se vuoi che la gente si comporti bene, paghi le tasse e lavori, non basta lanciare delle belle pubblicità progresso. Qui si vede che l’idea di un modello “open book”, della metafora dell’esame a libro aperto, funziona di più. Tu, Stato, devi fare in modo che i sistemi fiscali funzionino offrendo degli incentivi. Se mi dai, ad esempio, l’opportunità di detrarre la spesa sanitaria, o quella aziendale, cioè mi fai lavorare “open book”, io non ho motivi di aggirare la legge. Lavorare con un modello “open book” significa poi che, per il contrasto all’evasione, non si punisce solo il barista che non emette lo scontrino, ma si controllano anche i grandi capitali che transitano per paradisi fiscali per offrire equità al paese. Va garantita equità al nostro Paese, altrimenti è ovvio che le persone si sentano spinte ad eludere il fisco, perché non si percepiscono protette dal sistema. La vita di ciascuno di noi è un intreccio di comportamenti. Però, o considero la disonestà come regola, e l’onestà come eccezione, o viceversa. Sostengo che è meglio il contrario, perché crea un senso di amicizia sociale, un popolo. Dalla crisi del ’29 gli americani uscirono perché oltre la crisi intravidero il progetto di un grande paese collettivo.
Cosa significa che l’idea di amicizia sociale potrebbe risolvere la crisi dell’occupazione?
Cosa unisce in una stessa grande città un tramviere, un vigile, un idraulico e un panettiere? Oggi molto poco, perché ciascuno di questi lavoratori vede l’altro come un potenziale rivale. Invece bisogna lavorare per non avere un atteggiamento sospettoso, ma volto a concepirsi come una comunità. Ci vuole entusiasmo e ottimismo nel combattere una crisi: per risolvere il problema del mondo del lavoro dobbiamo ricercare delle soluzioni non solo dalla politica, ma dalla società civile ed economica. Penso a soluzioni di alleanze, di network, di rilancio e speranza per fare impresa. La crisi non la risolve la politica, non dobbiamo dimenticarlo: è un’illusione tardo ottocentesca pensare che sia il governo a tirarci fuori dalla crisi. Gli elementi della soluzione sono sparsi in milioni di persone, che ogni giorno vanno a lavorare con entusiasmo o no, che rischiano e investono, che osano quando assumono un lavoratore. Se non si ricrea questo clima di fiducia ed entusiasmo collettivo, smorzando anche i toni della contrapposizione politica, non si esce dalla crisi. Dobbiamo tutti essere imprenditori. Se la riforma fiscale non si basasse solo sulle tasse, ma desse segnali di incoraggiamento a mettere in piedi attività nuove, aiuterebbe di più.
A proposito di “equità”: la manovra ha appena eliminato il contributo di solidarietà sui redditi superiori ai 90 mila euro. Cosa ne pensa?
Che è stato un errore. Non vedo perché eliminarla, si stava arrivando ad un consenso ed invece, probabilmente per non perdere una manciata di voti, si è fatta marcia indietro. Si poteva alzare la soglia del contributo ai redditi superiori ai 150 mila euro: era uno dei pochi interventi della manovra considerato equo. Se non si ha il coraggio, nei momenti di crisi, di mettere in primo piano l’equità, non andiamo avanti. La politica è sempre qualche decennio indietro. Negli ultimi anni, da parte della base, è cresciuta l’esigenza di uguaglianza sociale. La politica non l’ha ancora capito: lo si vede proprio dall’eliminazione della tassa di contributo straordinario, per non toccare quella piccola casta di ricchi.
Sempre a proposito di equità, a fine estate è diventata rovente la polemica sui benefici fiscali di cui gode la Chiesa in Italia. Lei cosa ne pensa?
Che la Cei come componente importante dell’Italia deve dare anch’essa un segnale: secondo me va fatta maggiore distinzione tra i beni o enti della Chiesa effettivamente di uso sociale (oratori, scuole, ospedali), che vengono aiutati come altri enti non della Chiesa, e invece quelli che non lo sono. Penso poi che la Cei sia disponibile a dialogare.
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