
“Strisciai fuori dalla pelle di bufalo cautamente, m’inginocchiai e mi affacciai sull’orlo del carro. Pareva non vi fosse nulla da vedere: nessuno steccato, torrente o albero, nessuna collina né campo”, “null’altro che terra”, “avevo la sensazione di aver lasciato il mondo dietro di me, di averne raggiunto il limite e di essere al di là di ogni controllo umano”. Così la scrittrice Willa Cather rammenta il suo arrivo in Nebraska all’età di 9 anni, “mai avevo guardato un cielo contro cui non si stagliasse una catena di monti familiare. Questa invece era l’intera volta del cielo”, “non c’era un paese ma la materia di cui i paesi sono fatti”.
“INSOPPORTABILE SILENZIO” DEL GRANDE OVEST
C’è tutto nelle parole di Cather dell’enorme sgomento che nella seconda metà dell’Ottocento afferrò oltre un milione e mezzo di americani quando partirono verso il grande ovest e i 65 ettari promessi a chiunque ne avesse allora fatto richiesta. C’è tutto per dare ossa, carne e anima all’esperienza di chiunque varchi le soglie della mostra “Bolle, pionieri e la ragazza di Hong Kong”, nata per raccontare al Meeting di che pasta è fatto l’impeto americano, l’uomo moderno e il suo desiderio di “sconfinare”, sperando e temendo un orizzonte senza fine.
“MAGNIFICO, PENSAI. MAGNIFICA DESOLAZIONE”
Come in un film, i diari dell’“insopportabile silenzio” vissuto dai pionieri a quali viene data voce nella stanza dove vengono proiettati i famosissimi scatti time-lapse del fotografo americano Randy Halverson – diari dalle infinite praterie, di notti belle e solitarie come tombe dove “rabbrividisco al pensiero dell’insensatezza della vita mentre al contempo amo così tanto la vita che mi vengono le lacrime agli occhi” -, lasciano il posto alle voci e agli occhi abbeverati alla maestosità della luna degli astronauti di Apollo 11: “Bellezza mai vista prima. Magnifico, pensai. Magnifica desolazione”, mormora Buzz Aldrin. E poi? “Non sarei più tornato sulla luna: che cosa avrei fatto ogni giorno, che missione mi sarebbe stata assegnata?”, “se non era per qualcosa di straordinario, perché alzarsi dal letto?”.
IL SANGUE E LA CENERE
Dall’uomo pietrificato dalle domande sul dispiegarsi della vita che lo attende – ora che l’ovest è stato conquistato, ora che la luna è stata conquistata -, la mostra conduce a quelle degli schiavi venduti al mercato, dove il bianco aggancia il nero all’aratro (“lo ha fatto arare come un cavallo, lo ha pestato e scosso, ed è andato avanti a farlo arare finché quello è morto”), il sangue scorre “come fossimo maiali, come ci frustavano allora, oggi non riuscirebbero a frustare neanche un cavallo” e cantare le gioie nell’aldilà, confidando nella luce in fondo alle tenebre, “era l’unica speranza: «Ti prego, padrona, ti prego»: era il nostro modo di dire «Signore, pietà»”. Per poi passare dal sangue alla cenere, alle testimonianze, drammatiche, di scrittori e giornalisti innanzi alla caduta delle Torri Gemelle a New York, il giorno in cui “la terra rimase senza fiato, la gente si lanciava dalle torri”, “dapprima saltando da finestre già rotte, poi da finestre rotte da loro stessi. Saltavano per riuscire a respirare ancora una volta prima di morire”, “ogni saltatore, non importa quanti fossero, portava orrore”, “quelli che rotolavano nell’aria rimanevano a detta di tutti misteriosamente silenziosi, quelli a terra urlavano”.
LA BOLLA E LE TENEBRE
Cosa accadde quel giorno in cui la cenere dei morti iniziò a piovere sui vivi? “Quel giorno ha cambiato la trama del momento più banale, stiamo cercando di dare un nome al futuro, non più nel nostro modo speranzoso, bensì guidati dal terrore”. “Be like Bert, duck and cover”, insegnavano nelle scuole mostrando ai bambini come rannicchiarsi a guscio di tartaruga in caso di attacco nemico, aspettando la bomba atomica: ecco cosa è accaduto quel giorno. Di fronte all’incertezza generata dal male l’America si ritrova bambina e inerme, a caccia di un “safe space”, una bolla sicura in cui cercare di ignorare o proteggersi dal viaggio nelle tenebre: l’unico che svela il pericolo ma anche l’unico a chiedere la fede. L’unico – lo sapevano bene gli schiavi – necessario per trovare la luce a sua volta necessaria a vincere l’oscurità: “Che viaggio la vita, tutto dipende da cose che non si vedono”.
LA RAGAZZA DI HONG KONG
Tutto della mostra, dalle foto degli homeless scattate dal grande Lee Jeffries, ai video di Jim Fields, alla musica, vero “narratore” del percorso espositivo, porta al rivelarsi dell’unica avventura possibile alternativa alla bolla. Una gang, una prigione, un abbraccio, un vagito, un amore “forte abbastanza”: andate a vedere la mostra, andate a scoprire chi è la ragazza di Hong Kong che aspetta i visitatori nell’ultima sala, ultima tappa di un viaggio di grande impeto e impatto nell’America che tutti abbiamo dentro di noi.
Foto tempi.it