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Fausto Bertinotti: Caro compagno Napolitano, ridacci la parola

Il leader carismatico dei comunisti d’Italia non ne può più del «consenso passivo» nei confronti di un esecutivo imposto dalla Bce. Critica le scelte del presidente della Repubblica. E propone un articolo 18 per tutti. Le alternative di Bertinotti per il socialismo. Pubblichiamo l'articolo apparso sul numero 10/2012 di Tempi.

Massimo Giardina
15/03/2012 - 12:06
Interni
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Articolo apparso sul numero 10/2012 di Tempi.

«A seguito del 1989, avevamo due sinistre: una radicale e una moderata. Ora non ne abbiamo più nessuna perché entrambe sono state sconfitte». Fausto Bertinotti, leader storico e carismatico del comunismo italiano, si interroga sul presente e sul futuro della sinistra ripercorrendo il Novecento a partire dalla sconfitta del movimento operaio per arrivare alla contestazione al capitalismo globalizzato nell’adesione ai movimenti della sinistra radicale e alla candidatura dei progressisti moderati a governare la modernizzazione e a gestire la globalizzazione capitalistica. Perché «senza prendere in considerazione l’insegnamento da questa ampia e drammatica storia non sarà possibile ricostruire la sinistra. Il punto quindi non è più quello della riforma, ma della rinascita. Prendendo in prestito una terminologia cattolica si potrebbe dire che bisogna risorgere, con la coscienza che la resurrezione presuppone il calvario e la morte».

Quale dovrebbe essere l’elemento fondante della rinascita oltre all’insegnamento della storia? 
Recuperare la ragione dei vinti, cioè il tema dell’eguaglianza e della liberazione. Non vedo un’altra ragione di esistenza per la sinistra. Ormai i concetti di destra e sinistra sono così superati che subiamo il primato dei governi tecnocratici nei confronti dei quali c’è un consenso passivo delle grandi forze politiche. 

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Lei accusa il governo Monti di aver causato una frattura nella democrazia parlamentare. Ma il “grande regista” del nuovo esecutivo è il suo ex compagno di partito Giorgio Napolitano. 
Nella crisi è emerso un potere tecnocratico che è capace di dire e far credere: o me o il caos. Questo colpo di maglio sulla democrazia si è realizzato concretamente nella lettera inviata dalla Bce nell’agosto 2011, un documento in cui è imposto un indirizzo esercitato attraverso la Troika. Si poneva un aut aut nel quale i governi potevano decidere se aderire o essere costretti ad aderire. Il primo caso è rappresentato dalla Spagna, la seconda soluzione è palese in Grecia. In Italia, la lettera della Bce si è collocata in un contesto di maggioranza traballante tale da portare alle dimissioni dell’esecutivo. Si è così giunti a uno stato di eccezione, ovvero il luogo in cui prende forma il nuovo sovrano: la struttura tecnocratica. Il presidente della Repubblica è stato determinante nel sostenere che i provvedimenti necessari a tradurre la direttiva europea dovevano essere approvati in un brevissimo periodo, e ha chiesto al Parlamento un “atto di responsabilità”. Dopo le dimissioni di Berlusconi, si è posto un bivio: o si va al voto o si sceglie un’altra soluzione. Perché si è scelta un’altra soluzione? Non per l’impossibilità di accedere alle urne, ma per l’esito incerto che si sarebbe delineato dal punto di vista dell’adesione alla filosofia dettata dalla lettera della Bce. Napolitano si è mosso sulla scacchiera politica in modo strategico, per approdare alla costituzione di un governo di tecnici. Non mi si dica che questa è la normalità in un paese a regime democratico. 

Dove sta l’anomalia?
Nel fatto che i programmi, i candidati alla presidenza, le coalizioni, si scelgono a priori, non a posteriori. In questo caso il capo dello Stato ha deciso un esecutivo e ha chiesto ai partiti di aderirvi. È una sospensione della democrazia. La politica è morta perché la politica è possibilità di scegliere. 

È una parentesi?
No, l’ambizione è quella di un governo costituente. Siamo sicuramente in uno stato d’eccezione, ma in questa situazione si sta costruendo un nuovo regime nel passaggio dalla Seconda alla Terza Repubblica. Purtroppo, la via d’uscita dalla Seconda Repubblica non è democratica, ma tecnocratica. 

Il Pci nel 1970 era in disaccordo con l’approvazione dello Statuto dei lavoratori e in aula si astenne. Quarant’anni dopo avete cambiato idea?
Non ci fu un disinteresse del Pci, anzi, la nostra idea era: “La democrazia deve valicare i cancelli delle fabbriche”. Il Pci era critico nei confronti dello Statuto perché i diritti previsti non erano tali da valorizzare il pieno protagonismo dei lavoratori. 

Quindi condizione necessaria ma non sufficiente?
Sì, per due ragioni. Primo: veniva privilegiato troppo il sindacato a scapito dei lavoratori. Tutti gioimmo all’apertura dei cancelli, ma il fatto che il portatore dei diritti fosse essenzialmente il sindacato al posto dei lavoratori portò frutti avvelenati. Secondo: l’articolo 18. Il limite dei 15 dipendenti fu un compromesso dell’ultima ora tra i democristiani con il ministro Donat Cattin e i socialisti con in testa Gino Giugni che ereditò il lavoro di Giacomo Brodolini, scomparso poco prima. L’articolo 18 era importante nell’architettura dello Statuto al punto che una parte della presa di distanza critica del Pci era motivata dal fatto che non era esteso a tutti i lavoratori. A maggior ragione andrebbe difeso oggi, semmai esteso. 

Una domanda più personale. Nella sua vita ha avuto l’opportunità di conoscere persone come Giovanni Paolo II. Si è mai domandato se ciò che loro testimoniavano potesse essere verità anche per lei?
Mi pone il grande problema della verità. Non sono un post-modernista, uno che vive nell’impossibilità di accedere alla verità con l’idea che tutto è riconducibile al frammento nell’esperienza di sé, alle emozioni che uno vive. Appartengo a un’altra cultura: quella del reale, della ricerca della verità. Non stiamo parlando di vezzi intellettuali, ma di sofferenza, dolore, felicità. In questa ricerca non ammetto gerarchie: la mia ricerca vale la tua. È un’indagine esistenziale e tollerante nel senso più alto del termine: non paternalisticamente rispettosa, ma paritariamente interlocutoria nello spazio di convivenza della comune appartenenza all’umanità. So bene che c’è differenza se si fa derivare l’origine di questa appartenenza da una figliolanza nei confronti di Dio o semplicemente da una appartenenza a una specie. Mi asterrei dal chiedere “perché tu fai questa scelta?”, mi interessa invece dialogare con te sui passi che reciprocamente abbiamo fatto. Esperienze di questo genere producono una comunanza d’intenti che consente di rispettare la tua ricerca in Gesù Cristo e mi chiede di capirla. Io ci provo a capirla. Non è la mia, ma ci provo al punto tale che interessa alla mia esperienza. Non è un approccio intellettualistico, ha una ripercussione diretta su di me.

twitter: @giardser

Tags: bertinottifedeGiovanni Paolo IImontinapolitanosettimanale tempi
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