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Papa Benedetto XVI a Cuba. L’attesa dell’isola “comunista”

Il paradosso di una rivoluzione comunista che ha impoverito il popolo, i riti d’importazione africana, la Chiesa e le sue opere. Papa Benedetto XVI si prepara a visitare Cuba, «un paese non cattolico ma “cattolicizzabile”». Perché i cambiamenti più importanti sono quelli di cui nessuno parla.

ANGELA AMBROGETTI
25/03/2012 - 10:31
Esteri
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«A Cuba non c’è libertà religiosa, semmai una certa forma di libertà di culto». Nei corridoi del Vaticano lo dicono un po’ tutti, ma nessuno vuole essere citato. A pochi giorni dalla seconda vista di un Papa nella terra della rivoluzione castrista, si parla più o meno sottovoce del senso di questo viaggio. Benedetto XVI sarà a Cuba dal 26 al 28 marzo dopo tre giorni di visita in Messico per celebrare il bicentenario dell’Indipendenza dell’America Latina. A Cuba il Papa va a celebrare i 400 anni del ritrovamento dell’immagine veneratissima della Vergine della Carità del Cobre, ma anche a sostenere la Chiesa cattolica che vive in un difficile equilibrio.

Bocche cucite quindi tra i vertici vaticani su Cuba. E non certo per paura, piuttosto per difendere i cattolici dell’isola dei Caraibi che solo da poco hanno smesso di temere di entrare in una chiesa la domenica senza essere “segnalati” ai controllori del Comitato di difesa della Rivoluzione. Eppure di diplomatici che sono passati per Cuba, in Vaticano oggi ce ne sono diversi. Ma tutti sanno che la situazione è talmente delicata che basta un nonnulla per far tornare la situazione dei cattolici indietro di decenni.

Negli anni sono stati molti gli “emissari” vaticani in visita a Cuba. A cominciare dal cardinale Tarcisio Bertone, nell’ottobre 2005, quando era arcivescovo di Genova. Ospite del vescovo e della diocesi di Santa Clara realizzò un intenso viaggio pastorale in diverse località dell’isola. Il cardinale Joseph Ratzinger era stato appena eletto Papa e così Bertone portò al nuovo Pontefice il primo invito per una visita a Cuba, formulato con grande rispetto e affetto. Fu Fidel Castro che in una lunga conversazione con Bertone definì Benedetto XVI «una buona e grande persona» e «che ha un volto che sembra quello di un angelo». Bertone dichiarò che «a Cuba la Chiesa è considerata con molto rispetto da parte del Governo». Anche il presidente del pontificio consiglio della Giustizia e della pace, il cardinale Renato Raffaele Martino, a Cuba nel febbraio del 2006 per presentare il Compendio della dottrina sociale della Chiesa, incontra Fidel Castro e torna in Vaticano con un altro invito per il Papa. Invito naturalmente confermato al cardinale Bertone che, questa volta come segretario di Stato di Benedetto XVI, ritornò nel paese in occasione del decimo anniversario della visita di Giovanni Paolo II tra il 21 e il 26 febbraio del 2008.Cuba è un’isola. Non è una considerazione da poco in fondo. Perché essere isola significa alla fine essere isolati e un po’ isolazionisti. Questo di certo non aiuta la democrazia.

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Negli anni Cinquanta Cuba era un paese ricco, e la ricchezza era in mano alla maggioranza della popolazione. Canna da zucchero e agricoltura come prima risorsa. Anche le mucche erano di una razza particolare che dava fino a 12 litri di latte al giorno, le mucche creole. Ora nessuno muore di fame, ma c’è ovunque una grande malnutrizione. Il paradosso della rivoluzione castrista.La democrazia sembra una parola lontana per la gente della grande isola dei Caraibi. Terra di sogno per i turisti occidentali di oggi, terra di grandi speranze al tempo del colonialismo spagnolo, terra senza democrazia praticamente da sempre. E a Cuba l’unica istituzione che ha una credibilità è la Chiesa cattolica. Perché è vicina alla gente. Per questo la visita del Papa è importante. L’intento del governo con questo viaggio del Papa è quello di accendere la luce su Cuba, e quello della Chiesa è simile anche se con fini di fatto opposti.

A Cuba se pure c’è una qualche apertura economica, manca il rispetto delle dignità della persona. Il regime castrista, la rivoluzione, è sempre presente. A partire dalle tasse sulle auto fino alla sessualità che è “gestita” da un’agenzia dello Stato, la Cenesex. Per far dimenticare la miseria e la corruzione che ne deriva, il regime cerca di “drogare” l’anima del popolo con una “educazione” sessuale di libertà assoluta e di precocità. Risultato: l’80 per cento delle donne ha abortito almeno una volta e i matrimoni durano in media 18 mesi. La tanto decantata sanità cubana si basa su medici che il governo “vende” ad altri paesi, come il Senegal o il Venezuela. Sono bravi i medici cubani, hanno un ottimo approccio con il paziente. Ma non hanno mezzi e neppure medicine. Allora ti mandano nelle parrocchie cattoliche. Lì arrivano le medicine, gli antibiotici. Eppure a Cuba ci sono mitologiche cliniche per ricchi. Così la scuola. Tutti studiano, molti sono anche preparati, ma alla fine la gente va nelle parrocchie per ripetizioni e lezioni. Di nascosto, perché alla Chiesa non è permesso educare, può solo avere ospizi per anziani e poveri.

A Cuba il “nemico” ha un solo nome: Usa. L’annosa questione dell’embargo, del bloqueo, sembra ormai assestata su un traffico preciso. Cuba importa la maggior parte dei beni alimentari dagli States. Ma di nascosto e con pagamento anticipato in contanti. Nell’isola non si produce quasi più nulla. Le vecchie aziende dello zucchero sono in disarmo, e così tutta l’agricoltura. Del resto a Cuba l’embargo obbliga a stranezze. Il partito comunista stampa il suo giornale ufficiale su carta statunitense. Cuba vive di turismo, un po’ delle miniere di nichel e di rimesse dai cubani in esilio. Nel 1902, l’anno dell’indipendenza dalla Spagna, a Cuba il 60 per cento della popolazione era nera o creola. Nel 1958, al contrario, il 60 per cento erano bianchi, spagnoli. Sono loro che sono emigrati in questi anni e a Cuba sono rimasti i neri e i creoli che non hanno nessuna rimessa dall’estero.A Cuba la Chiesa non è mai stata perseguitata con vera violenza. Fidel Castro ha studiato dai gesuiti e ha mantenuto una sua personalissima forma di rispetto per la cultura cattolica. Ma c’è stata opposizione per qualunque cosa. E poi la prigione e i campi di rieducazione per i preti. Come quello dove è stato per un anno il cardinale Ortega y Alamino, arcivescovo dell’Avana che ha già ricevuto Giovanni Paolo II. Alcuni lo giudicano troppo indulgente con il regime. Ma del resto una Chiesa aperta è sempre meglio di una chiusa, dicono altri. Dopo la visita di Wojtyla sulla gente che va in chiesa c’è meno controllo, anche se i battezzati sono solo la metà della popolazione, e solo il 2 per cento frequenta.

Invece la processione che ha portato in tutta l’isola l’immagine della Madonna del Cobre è stata vivacissima in tutta la nazione, con gente di tutti i tipi, anche un po’ per superstizione. Addirittura in alcuni paesi, in processione si sono visti i massoni con tutti i loro simboli. «Cuba non è un paese cattolico ma “cattolicizzabile”», si dice. Il ruolo principale della Chiesa oggi è la carità. Dal 1958 non c’è il permesso di costruire nuove chiese cattoliche, e la riapertura del seminario all’Avana, ad alcuni è sembrata più un’operazione pubblicitaria di Raul Castro che negli anni Sessanta lo sequestrò in nome della rivoluzione.

A Natale il cardinale Ortega y Alamino pronuncia il suo discorso in tv, è vero, ma sul canale educativo che si riceve praticamente solo nella capitale. Insomma la strada per un vero cambiamento è lunga. E la Chiesa cattolica cerca dei piccoli spiragli pur tra mille difficoltà. Come quando ha partecipato alla trattativa per l’uscita di prigione di 75 dissidenti un paio di anni fa. Qualcuno temeva che fosse un modo di farsi strumentalizzare, ma era anche un modo per poter far puntare i riflettori su Cuba, sulla drammatica mancanza di rispetto dei diritti umani in un paese isolato a pochi chilometri dalla costa degli Stati Uniti dove frotte di turisti vanno senza rendersi spesso conto che con quello che spendono per una cena una famiglia cubana deve vivere per un mese.Una fatica anche per la Chiesa, per i tanti religiosi e religiose che sono vicini alla gente e per quelli che vivono sul filo del rasoio con la psicosi di essere continuamente spiati e controllati.

«Hay que resolver», dicono a Cuba e pragmaticamente cercano ogni mezzo per sopravvivere, con un po’ di indolenza caraibica e con la speranza che qualcuno si accorga di loro.

La Chiesa fa quello che può, ma ci sono anche tanti sacerdoti che dopo un po’ si scoraggiano e chiedono di andar via, magari a Miami con la comunità di esuli cubani. E così a Cuba restano soprattutto neri e creoli avvolti dalla nuvola della Revolucion e condizionati dai riti magici dei culti di antica importazione africana. Non è raro trovare chi si guadagna la vita allevando galli da sacrificare per qualche rito della Santeria. La Chiesa affronta questa situazione basandosi su quello che è rimasto della cultura cattolica. E lo fa con coraggio e abnegazione, potendo lavorare solo nelle parrocchie. Niente scuole, niente università, niente accesso al mondo culturale insomma.

I cattolici cubani da questa visita si aspettano anche l’annuncio della beatificazione del servo di Dio padre Felix Varela. Rodolfo Meroli, postulatore della causa, conferma che la Congregazione per la causa dei santi ha approvato il decreto che ne dichiara le virtù eroiche. Giovanni Paolo II nel suo viaggio disse che «la fiaccola che, accesa da padre Varela, doveva illuminare la storia del popolo cubano fu raccolta, poco dopo la sua morte, da quella personalità eminente della nazione che fu José Martí». Un discorso tenuto all’Università in cui il Papa ricordava la venerazione dei cubani per padre Varela e José Martí. «Sono convinto – disse – che questo popolo ha ereditato le virtù umane di matrice cristiana di ambedue questi uomini, dato che tutti i cubani condividono in modo solidale la loro impronta culturale».

Intanto la diplomazia vaticana è molto cauta. Il nunzio monsignor Bruno Musarò, arrivato da poco a dare il cambio a Giovanni Angelo Becciu, diventato il numero due della segreteria di Stato vaticana, rilascia solo poche interviste ufficiali. In una dichiarazione al Sir, l’agenzia dei vescovi italiani, parla dei cambiamenti dopo la visita di papa Wojtyla: «Tutti ricordiamo ancora le parole profetiche di Giovanni Paolo II: “Che Cuba si apra al mondo e il mondo a Cuba!”. Proprio da quell’esortazione, pronunciata davanti a migliaia di cubani e a milioni di telespettatori, scaturisce gran parte dei cambiamenti che stanno caratterizzando la vita della nazione, incominciando dal dialogo tra Chiesa e governo. L’ultimo riguarda il campo economico con un insieme di riforme.

Ma i cambiamenti più importanti sono quelli di cui nessuno parla e che si realizzano nel cuore e nella mente di coloro che hanno accolto il messaggio di Giovanni Paolo II. In sostanza si tratta della speranza nel futuro dell’isola, della gioia di sapersi amati e rispettati, intraprendendo così un cammino di riconciliazione e d’impegno per il bene comune. I prigionieri, i malati, le persone sole o abbandonate hanno trovato una ragione per andare avanti, superando con fiducia e coraggio tutti gli ostacoli. Questo è il vero cambiamento: la libertà interiore, il desiderio di crescere nell’amore vero, quello che solo il Signore Gesù ci può dare».Il cuore dei cubani è aperto a fede, cultura e musica. Cuba è un’isola piena di contraddizioni, ma dove c’è tanta voglia di vivere e di creare, di esprimersi. Anche per la fede. Ma la diplomazia deve mantenere il suo equilibrio. Come fa l’ambasciatore cubano presso la Santa Sede. Eduardo Delgado ricorda sempre che i rapporti diplomatici tra Cuba e Vaticano da 76 anni non sono mai stati interrotti. E Cuba è grata per la posizione della Santa Sede, ovviamente contraria all’embargo. Del resto la Chiesa si è sempre opposta a ogni azione le cui conseguenze ricadano sulla popolazione.

«Il popolo cubano – dice l’ambasciatore – a mio avviso aspetta innanzitutto di vedere il Papa: desidera stargli vicino, ascoltarlo, ricevere il suo messaggio. La sua parola influisce positivamente sulle persone e sullo sviluppo della società». Insomma, Cuba è un paese difficile per tutti, a tinte forti, descritto in modi quasi opposti da chi pensa che la Chiesa dovrebbe prendere posizioni forti contro il regime e da chi invece pensa che il Vangelo passa per vie imprevedibili e che è meglio non rischiare l’espulsione, come è successo in passato a preti e suore. Nessun compromesso col regime ovviamente, ma una sorta di Ostpolitik caraibica che punta sulla vicinanza alla gente attraverso la carità e la disponibilità. Anche per questo la visita di Benedetto XVI è importante. Perché un padre non lascia mai soli i suoi figli. E qualcuno sogna addirittura una Gmg all’Avana.

Tags: Benedetto XVIcastrocomunismocubaviaggio
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