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Bastardi in buona fede (e un libro come rimedio)

Il film di Emmanuel Mouret sulle complicazioni sentimentali e il volume di Daniela Tedioli, che apre un'altra prospettiva

Rodolfo Casadei
15/03/2021 - 10:31
Cultura
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Questa non è la recensione di un film seguita da quella di un libro, ma una meditazione sull’amore come catastrofe. Catastrofe nel senso etimologico del termine, quello consacrato dalle tragedie greche: rovesciamento, capovolgimento, cioè irruzione di una novità radicale. Il film è Les choses qu’on dit, les choses qu’on fait di Emmanuel Mouret, specialista di commedie sentimentali malinconiche e disincantate. Non posso né devo recensirlo perché non l’ho visto, ma non mi sono perso i trailer e ho letto la trama e i commenti sulla stampa francese. Il film era candidato a ben tredici César – l’equivalente francese dell’Oscar – ma ne ha portato a casa solo uno, per la migliore attrice non protagonista.

Desiderio mimetico

Nonostante un notevole battage pubblicitario nei mesi precedenti e nonostante avesse già ricevuto il premio Lumières della stampa internazionale. Non la definirei una cattiva notizia, quando si va a vedere qual è il suo messaggio: le complicazioni sentimentali, gli intrichi di relazioni, i tradimenti, gli “amori che fanno giri immensi e poi ritornano”, insomma il carosello delle vite e dei soprassalti del cuore che incanta gli spettatori dei film di Mouret come di tanti altri registi che amano le storie a intreccio, (non sono più giovane e a me viene in mente Robert Altman) altro non sarebbero che il prodotto di quello che l’antropologo René Girard ha rivelato essere il “desiderio mimetico”. Che è diventato celebre ben oltre il perimetro dell’antropologia come spiegazione della violenza sociale: questa nascerebbe essenzialmente dall’invidia per la ricchezza e il potere altrui, che non sarebbero desiderabili in sé, ma in quanto sono posseduti da un altro.

«Sapevi che ero sposato»

A Girard non andavano molto a genio gli psicanalisti e le loro teorie sul desiderio. In polemica con Jacques Lacan, rigettava l’idea di un soggetto desiderante autonomo: secondo lui il desiderio non riguarda un oggetto che si desidera per le sue qualità intrinseche, ma nasce quando si vedono gli altri desiderare quello stesso oggetto. Mouret traspone la teoria al mondo delle relazioni sentimentali: la girandola degli amori nascerebbe proprio dal desiderio mimetico, dal fatto che gli uomini e le donne che incontriamo sono desiderati e “posseduti” da altri, e la consapevolezza di ciò ci spinge fatalmente a desiderarli. L’amore è sempre a tre, come minimo. In una scena del suo ultimo film c’è un dialogo che fa pressappoco così: “Sapevi che ero sposato”, “Proprio perché eri sposato ti ho voluto”, “Allora facciamo in modo di sposarci noi”, “No, se ti sposo poi dopo tutte ti desidereranno”. Ricollegandosi così platealmente a Girard il regista Mouret non compie alcuna scorrettezza: prima di applicare la sua teoria all’antropologia sociale, Girard l’aveva già adombrata nel suo primo libro importante, Menzogna romantica e verità romanzesca, in riferimento ai temi sentimentali presenti nel Dostoevskij de L’eterno marito e nello Stendhal de Il rosso e il nero.

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«Tenetevi le ghiande»

L’effetto di questa bomba filosofica lanciata sull’amore non è affatto piacevole; non è molto più consolante della teoria sull’origine evoluzionistica dell’infedeltà coniugale e della promiscuità sessuale in genere, quella secondo cui i maschi vogliono spandere il più possibile il loro patrimonio genetico, le femmine cercano il partner sano che sappia meglio proteggere la futura progenie sana. Questa teoria, sostenuta da arci-atei come Richard Dawkins o Yuval Noah Harari, fa venire in mente quel verso del “Cirano” di Francesco Guccini che dice così: «E voi materialisti, col vostro chiodo fisso/ Che Dio è morto e l’uomo è solo in questo abisso./ Le verità cercate per terra, da maiali/ Tenetevi le ghiande, lasciatemi le ali». Se c’è una cosa che mette le ali al cuore, se c’è qualcosa che eleva, questo è proprio l’innamorarsi.

Competere con Dio

Girard e Mouret si collocano a mezza strada: non guardano per terra come i materialisti, non guardano verso il cielo come tutti gli amanti di questo mondo (non è possibile che il cielo terso del giorno e la luna della notte non c’entrino intrinsecamente con l’amore), ma guardano orizzontalmente dritto davanti a sé, vedono solo quello che hanno davanti: uomini e donne che desiderano uomini e donne perché una terza/terzo li/le desiderano. Non si può cercare di dare loro torto senza prima ammettere che hanno buone ragioni. A chi non è capitato che la fidanzata/moglie/compagna diventata tiepida abbia improvvisamente riscoperto la passione quando all’orizzonte è apparsa un’altra donna, evidentemente interessata a ciò che ormai sembrava annoiare la fidanzata, moglie, ecc.? Immagino che le donne possano raccontare la stessa esperienza riferita ai loro compagni. E sempre da un punto di vista maschile, è difficile restare indifferenti al torbido fascino del cliché della parrocchiana che mette nel mirino il parroco o un altro sacerdote, fino a provocarne la caduta. L’oggetto più desiderabile di tutti è colui che ha respinto il desiderio di tutte e ha accettato su di sé solo il desiderio di Dio. Cosa c’è di più inebriante che mettersi in competizione con Dio per il cuore di un uomo siffatto?

Campioni della morale

Su altro ancora si deve dare ragione a Mouret (nel mentre che ci si compiace che il suo cinismo sentimentale non abbia trionfato ai César) ma solo fino a un certo punto, e cioè sulla sua blanda denuncia dell’incoerenza. Il titolo, “Le cose che si dicono, le cose che si fanno”, allude evidentemente alle bugie in amore che si raccontano a se stessi e agli altri. Che lui non condanna affatto.

In un’intervista al magazine di Le Figaro ha affermato:

«La nostra epoca è popolata di campioni della morale, che esigono da noi comportamenti rigorosi che ci mortificano.(…) Credo nella clemenza e penso che è molto difficile essere sempre all’altezza delle proprie parole. D’altra parte, come ci si può attribuire il diritto di giudicare quando, sotto molti aspetti, siamo tutti ben lontani dall’essere irreprensibili?».

Cosa fare con i moralisti

Già, ma sta di fatto che non c’è differenza sostanziale fra il partner che dichiara eterno amore e poi tradisce, o che afferma di non essere geloso e poi tortura psicologicamente la compagna, e i moralisti della vita pubblica e della vita privata, che sorprendiamo continuamente ad applicare due pesi e due misure e a contraddirsi nei fatti: sono tutti e due modi dell’incoerenza. E man mano che si matura ci si rende drammaticamente conto che i moralisti della vita pubblica e privata – quelli che predicano dialogo, misericordia, onestà, giustizia, amore per l’altro che è un bene per me, accoglienza, rifiuto del pettegolezzo, fedeltà, ecc., nel mentre stesso che fanno il contrario di quello che dicono – nove volte su dieci non si comportano così per ipocrisia, ma sono semplicemente ciechi davanti alle loro personali incoerenze per un meccanismo di autodifesa psicologica che scarica le loro potenziali sofferenze sugli altri. Sono – è sconvolgente ammetterlo – dei bastardi in buona fede. Non ci si può far niente, si può solo essere indulgenti con loro, si può solo essere clementi ben sapendo che loro non si renderanno conto della vostra magnanimità. E in più dovrete sempre sorvegliare voi stessi, per evitare che la vostra magnanimità scivoli nel cinismo e nel disincanto: dagli uomini e dalle donne non ti puoi mai aspettare niente di permanentemente buono, sia quando dicono di amare sia quando fanno la morale agli altri…

Amore vero

Un antidoto al mondo del desiderio mimetico e della rassegnata tolleranza consacrati come i giudizi ultimi sull’amore che si ritrova nei film di Mouret l’ho incontrato in un libro che si intitola Centoquattordici giorni, scritto da un’autrice di fiabe e racconti che di nome fa Daniela Tedioli. Non si tratta di un antidoto puramente letterario, perché la storia d’amore che abita le sue pagine è sicuramente vera – anche se non sta scritto da nessuna parte. Inconfondibilmente reali sono i dialoghi fluidi e piani (mentre il presidente della giuria del Lumières che ha premiato Les choses qu’on dit, les choses qu’on fait ha spiegato che il film «è l’essenza del cinema francese, con persone che parlano in un modo nel quale nessuno parla nella vita vera»), verosimile è l’alternarsi di incanto (tanto) e bisticci (rari), inconfutabile la testimonianza della trasformazione interiore dei protagonisti nello svolgersi del loro incontro.

Lo si può capire

Succede esattamente il contrario di quello a cui allude il titolo del film di Mouret: qui le persone sono costrette alla coerenza con le parole che pronunciano – a fare quello che dicono – dall’imponenza dello stupore per l’attrazione reciproca; e se la storia è un evento che dura centoquattordici giorni – un niente e un’eternità nello stesso tempo, un niente destinato a durare in eterno – non è perché tutto ciò che è umano si consuma, o a causa degli impulsi del patrimonio genetico ed evolutivo o a motivo della pulsione mimetica sociale. Ma perché al di sopra dell’amore che innalza agisce un Mistero che vuole sollevare ancora più su, incomprensibile eppure reale come il Padre che chiede al Figlio di offrire la propria vita e di lasciare che si compia il sacrificio. Lo può capire (può: non è detto che lo capisca per forza) solo chi, oltre a innamorarsi e a vivere una storia d’amore, ha sperimentato a un dato momento di quella storia lo strappo impietoso del Mistero. Cioè l’amore come duplice catastrofe: quando irrompe e poi quando viene crocefisso. Tutti gli altri si accontentano della teoria evoluzionistica o di quella mimetica. E si addormentano tranquilli o sprofondano nella depressione, a seconda della sensibilità delle rispettive anime.

Tags: Franciarené girard
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