
«Ho perso 31 parenti a Gaza. Ma i pro Pal danneggiano la nostra causa»

Mancava solo un giorno alla chiusura del valico di Rafah quando riuscì a fare arrivare sani e salvi negli Emirati Arabi sua cognata e i suoi quattro figli. Suo fratello aveva deciso di restare a Gaza per continuare il suo lavoro per una ong inglese e aiutare gli altri. La famiglia era sopravvissuta a un attacco aereo israeliano una settimana dopo l’inizio della guerra: due cugini erano morti, molti zii feriti. Si erano incamminati verso Rafah, verso la casa di sua madre. Ma qualche settimana prima del loro arrivo la casa venne colpita da un altro attacco. Questa volta furono 29 le vittime tra i suoi parenti, ai superstiti il terribile compito di scavare tra le macerie, tirando fuori i corpi bruciati e sfigurati dei membri della loro famiglia.
«Ogni volta che condivido questa storia, la gente presume che io sia consumato dalla rabbia, desideroso di vendicarmi dei responsabili. Devo disprezzare tutti gli israeliani e considerarli miei nemici giurati», scrive Ahmed Fouad Alkhatib su The Free Press raccontando la sua storia. «Nonostante la mia profonda frustrazione e risentimento per le azioni del governo israeliano e la guerra in corso a Gaza, non lo faccio. Semmai, sono più critico nei confronti di alcuni attivisti filo-palestinesi, molti dei quali stanno peggiorando le cose, mettendo sempre più in pericolo le persone che affermano di difendere. In effetti, direi che alcuni non sono poi così interessati al benessere dei palestinesi».
«A Gaza dicevano che avremmo fatto la storia. Ma che senso avevano tutti quei morti?»
Ahmed Fouad Alkhatib è un analista politico della Striscia di Gaza, ritiene Netanyahu un criminale di guerra, responsabile dell’uccisione dei membri della sua famiglia insieme a decine di migliaia di palestinesi innocenti a Gaza. Ma non odia gli israeliani. Si oppone con forza «a tutto ciò che Hamas rappresenta e a tutti i suoi atti ignobili contro il popolo israeliano». Lotta anche lui, ma per la pace, il pragmatismo, la coesistenza di due popoli in due Stati. E questo fa di lui un uomo in guerra nell’Occidente che non è mai stata la sua vera casa e non gli perdona la sua posizione.
Aveva 10 anni a Gaza nel 2000, quando iniziò la Seconda Intifada: «Ho ricordi nitidi: i miei amici e i ragazzi più grandi parlavano della lotta contro l’occupazione israeliana come se fosse qualcosa di romantico ed eroico, sostenendo che saremmo stati parte di una rivoluzione che sarebbe stata ricordata per sempre nei libri di storia». Ma per quel bambino morto, violenza e distruzione non avevano nulla di epico. A 11 anni stava passando con alcuni amici davanti a una stazione della polizia quando gli aerei sganciarono le bombe. Due di loro morirono, lui perse l’udito dall’orecchio sinistro e guadagnò ricordi che lo perseguitano ancora oggi. Allora era furioso con Israele ma l’orizzonte della vendetta non lo consolava né aveva senso per lui: «La violenza non porterebbe semplicemente ad altra violenza e a più bambini morti? Che senso aveva per il popolo palestinese combattere contro gli israeliani, che chiaramente erano militarmente più forti di noi? Ero un preadolescente che non sapeva quasi nulla del mondo, ma sapevo che tutto ciò che mi veniva detto sulla rivoluzione non avrebbe funzionato».
«Mi dissero che ero un traditore e dovevo tornare a Gaza. Non hanno mai seppellito nessuno»
Iniziò a lavorare per lasciare Gaza. Ci riuscì a 15 anni grazie a un programma di scambi culturali che lo condusse in California. Ma terminato il programma, la Guerra dei 33 giorni infuriava, il confine con l’Egitto era chiuso. Presentò domanda di asilo negli Stati Uniti lo stesso giorno in cui Hamas prese il controllo della Striscia. Era il 14 giugno 2007.
Terminate le scuole e conseguita la laurea, Ahmed Fouad Alkhatib s’innamorò degli attivisti pro palestinesi della Bay Area: «Ho marciato con loro. Ho dato loro dei soldi. Ho partecipato a dozzine di manifestazioni, sono andato a innumerevoli eventi universitari e ho partecipato a conferenze educative e campagne di difesa, incluso il movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni». Tuttavia rifiutava fortemente l’antisionismo dei compagni, che iniziarono ad accusarlo di essere un traditore: «Mi dissero che sarei dovuto tornare a Gaza per difendere la terra per la mia gente. Che avrei dovuto resistere al complotto sionista di svuotare Gaza da tutti gli abitanti palestinesi. Non importa se tornare lì avrebbe messo in pericolo la mia vita; se mi fosse importato davvero, dicevano, sarei stato in prima linea, a combattere per distruggere il nostro comune nemico». È facile tenere lezioni quando vivi in una città dove è improbabile che una bomba cada dal cielo per uccidere te e tutti quelli che ami, commenta amaramente Ahmed Fouad Alkhatib a Tfp: «È l’idealismo romantico di qualcuno che non ha mai dovuto seppellire un cugino, uno zio o un migliore amico».
https://twitter.com/afalkhatib/status/1800382539028410523
«Non parlare mai dei razzi di Hamas»
Un giorno, nel 2008, durante una manifestazione a San Francisco a sostegno di Gaza, fu avvicinato da un giornalista che gli chiese un’intervista sui razzi lanciati da Hamas contro obiettivi israeliani. Ahmed Fouad Alkhatib condannò Hamas definendo la violenza indiscriminata contro i cittadini israeliani «abominevole e sbagliata». Subito venne redarguito dagli organizzatori: «Non parlare mai dei razzi», «Se ti chiedono di Hamas, riporta il discorso all’occupazione israeliana». «Ma la mia famiglia è lì. Non penso che nessuna delle due parti dovrebbe ammazzare i civili con i razzi». «Non mi interessa».
Il colpo più duro alla sua fiducia nel movimento intransigente filo-palestinese arrivò nel 2015, quando tentò (inutilmente) di promuovere il progetto per un aeroporto a Gaza che «gestito a livello internazionale e approvato da Israele non avrebbe posto fine ai combattimenti, ma avrebbe potuto dare alle persone la possibilità di entrare e uscire da Gaza e garantire una certa libertà di movimento ai palestinesi intrappolati dal blocco nella Striscia». Era riuscito a dialogare positivamente col governo israeliano e con le forze di difesa israeliane riscuotendo immenso interesse da parte della popolazione di Gaza.
Ai pro Pal occidentali “servivano” i prigionieri di Gaza
«Ciò che mi mancava era il sostegno degli attivisti filo-palestinesi. Si sono opposti ai miei sforzi, perché la cooperazione avrebbe semplicemente fatto “fare bella figura a Israele”. (…) Per loro questo non era accettabile, anche se il popolo palestinese ne avrebbe tratto beneficio. Alcuni credevano che con la libertà di movimento molti abitanti di Gaza avrebbero scelto di andarsene, realizzando così il “complotto sionista” di svuotare la Striscia dei suoi abitanti», sostenendo in parole povere che la prigionia degli abitanti di Gaza servisse a «una causa più grande».
Ahmed Fouad Alkhatib non poteva credere a quello che stava sentendo: «Intrappolare le persone a Gaza andava bene perché ciò rendeva più facile “smascherare” e attaccare Israele? Che tipo di causa può fondarsi sul costringere la propria gente a rimanere in perenne miseria così che gli attivisti occidentali potessero condannare più facilmente i loro avversari?».
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«Abbiamo un’opportunità storica per promuovere la soluzione dei due Stati»
Il 7 ottobre è stato il punto di svolta. I sodali di Gaza non condannarono Hamas, ma Israele, qualcuno sostenendo perfino che l’attacco dei terroristi fosse stato inventato. Per l’analista il 7 ottobre coincise con il giorno in cui abbandonò la sua seconda famiglia, quei gruppi filo Palestina che sembravano trattare i palestinesi alla stregua di pedine. Ahmed Fouad Alkhatib ha lasciato a Gaza un fratello e una famiglia sopravvissuta alla furia sanguinaria di Netanyahu, ha una solida rete di amici tra le comunità ebraiche che pur nella differenza di opinioni riconoscono «la nostra comune umanità così come il disperato bisogno di lavorare per un futuro condiviso. Abbiamo un’opportunità storica per promuovere la soluzione dei due Stati. Un Israele sicuro e protetto proprio accanto a una Palestina libera e indipendente è l’unica cosa che garantirebbe alla mia patria sovranità e indipendenza».
«So quanto sia difficile non lasciarsi prendere dalle emozioni che circondano questo conflitto – conclude -. Non riesco a smettere di pensare ai miei trentuno parenti morti. Mi sveglio ogni mattina preoccupato per mio fratello, la mia famiglia e le persone, e mi irrigidisco ogni volta che squilla il telefono. Ma sono proprio quelle perdite e paure che mi fanno venir voglia di trovare un’altra strada e di non lasciarmi guidare esclusivamente dalle emozioni e dalla reattività. Voglio fare qualcosa di realistico, guardare verso un futuro migliore, quando finalmente romperemo il ciclo ripetitivo di incitamento, vendetta, rabbia e odio».
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