
«Solo la fede ci ha permesso di resistere a Gaza sotto le bombe»

«La guerra provoca solo distruzione e morte. Israele e Hamas hanno già perso: ora devono trovare un accordo per il cessate il fuoco». Suor Nabila Saleh è piccola di statura, ma il coraggio che nasce dalla sua fede la fa apparire un gigante. La religiosa egiziana della Congregazione del rosario ha 46 anni e gli ultimi 13 li ha passati a Gaza, al servizio di tutti i palestinesi e in particolare della piccola comunità di cristiani della Striscia (meno di mille persone). Dall’11 ottobre ha vissuto la tragedia della guerra, prendendosi cura dei 635 cristiani rifugiati nella parrocchia latina della Sacra Famiglia di Gaza. Dopo mesi vissuti sotto le bombe, se pur con dolore, ha lasciato la Striscia dopo Pasqua. Invitata a Milano dal Pime a raccontare la sua esperienza, suor Saleh ha rilasciato un’intervista a Tempi a margine dell’incontro che si è svolto lunedì sera davanti a una sala gremita di persone. «È stato difficilissimo vivere sotto i bombardamenti, spesso senza cibo e acqua. Solo la fede ci ha permesso di resistere», dichiara.
Come avete vissuto la strage del 7 ottobre da parte di Hamas?
Eravamo terrorizzati. Nessuno si aspettava un simile attacco, né che sarebbe scoppiata un’altra guerra dopo quella del 2021, che è durata solo 11 giorni ma è stata molto dura. Questa guerra, ovviamente, è diversa: tutto è andato distrutto, ci sono stati tantissimi morti, la gente si è ritrovata sfollata, senza casa. Tutti hanno perso tutto.
Voi cristiani dove vi siete rifugiati?
Siamo stati costretti a trovare riparo nelle due chiese di Gaza: quella latina della Sacra Famiglia e quella ortodossa di San Porfirio. La mia congregazione gestisce una scuola privata nella zona di Tel al-Hawa, ma l’11 ottobre abbiamo dovuto abbandonarla, perché era troppo pericoloso restare.
Si aspettava una guerra così devastante?
Mentre abbandonavamo la scuola, pensavamo che sicuramente non sarebbe stato facile. Ci dicevamo: la guerra finirà tra una settimana, magari tra due. Non immaginavamo certo che sarebbe durata mesi.
Come avete vissuto in questi mesi nella parrocchia?
Eravamo in 635 ed è stato difficile. Ci siamo divisi nelle classi della scuola parrocchiale: le famiglie che si conoscevano vivevano insieme nella stessa classe. Ci siamo divisi in gruppi per organizzare la vita: c’era chi cucinava, chi lavava i patti, chi puliva i bagni. Non è stato semplice, soprattutto perché i bagni erano esterni e perché ci siamo ritrovati spesso senza cibo.
La gente aveva paura?
Eravamo tutti spaventati, non è facile vivere in guerra per così tanto tempo. Le famiglie avevano paura per i loro bambini. Quando è scoppiata la guerra, il patriarca Pierbattista Pizzaballa ci ha detto di fare provviste per la gente. Ma a un certo punto sono finite, soprattutto mancavano il latte in polvere e i pannolini per i neonati, oltre che le medicine.

Non vi arrivavano gli aiuti umanitari?
Gli aiuti arrivavano soprattutto nel sud della Striscia, al nord non giungeva quasi niente. Per fortuna il re della Giordania ci ha fatto paracadutare molti aiuti.
Come avete fatto a mantenere la speranza?
Essere tutti insieme, attorno alla chiesa, ci ha aiutati. Ci dicevamo sempre: “Siamo come nell’arca di Noè”. La fede ci ha tenuti in piedi: la nostra gente ha davvero una grande fede. Ogni giorno celebravamo la messa e recitavamo il rosario. Quasi tutti i cristiani partecipavano. C’era tanta paura, ma anche tanta speranza e voglia di vivere.
Quali sono stati i momenti più drammatici che ha vissuto?
A dicembre abbiamo saputo che l’esercito israeliano era entrato nel quartiere dove si trova la chiesa. Non sapevamo però che si erano appostati dietro il complesso parrocchiale. Sentivamo che c’erano degli scontri e quindi avevamo detto a tutti di cercare rifugio al coperto. Ricordo che ci trovavamo sulle scale della scuola, tante volte dormivamo lì, quando una donna, Nahida Khalil Anton, è uscita da una classe per andare al bagno, che si trovava all’esterno. Un giovane l’ha avvertita: “Attenta, non uscire nel cortile, ci sono i cecchini”. Troppo tardi: le hanno sparato.
Perché i cecchini le hanno sparato?
Non lo so, non lo so, non deve chiederlo a me. Gli israeliani sapevano che nella chiesa c’erano solo cristiani. La donna era malata e la figlia, Samar, vedendola crollare a terra, ha pensato che fosse caduta da sola. Così si è lanciata fuori per aiutarla e i soldati le hanno sparato alla testa, uccidendo anche lei sul colpo. Io ho trascinato dentro il corpo della madre, aiutata da altre persone: la donna era ancora viva, ma dopo pochi minuti è morta.
Quanti cristiani hanno perso la vita durante la guerra?
Una trentina in tutto. Sedici cristiani sono morti quando una bomba ha colpito una sala adiacente alla chiesa ortodossa di San Porfirio. Una nostra ragazza è morta nel tentativo di raggiungere Rafah, nel sud della Striscia, per l’esposizione al sole e al caldo. Altri 11 sono morti a causa di malattie. Uno, in particolare, Hani Abu Daud, aveva bisogno della dialisi. Poiché gli ospedali del nord avevano smesso di funzionare, si è dovuto trasferire nel sud in cerca di cure. Ma non le ha trovate ed è morto solo, lontano dalla famiglia.
E lei, personalmente, come ha vissuto quei giorni?
Io, come tante altre consorelle, ho vissuto più profondamente la mia missione di servizio agli altri.
La vostra scuola è la più bella di tutta Gaza e sorge su un terreno che vi ha donato Arafat. In che condizioni è ora?
Sono andata diverse volte a controllare: è molto danneggiata. Una parte è distrutta, i muri sono crollati, gli alberi spezzati, le nostre attrezzature moderne ormai inservibili.
I soldati israeliani sono entrati nella scuola?
Sì. Un soldato ha scritto con un pennarello sul muro della presidenza, il mio ufficio: “Hamas è responsabile. Voi pagate il prezzo”. Un messaggio che mi ha sconvolta.

Che cosa significa?
Non lo so, ma è un messaggio sbagliato. Noi non c’entriamo niente con Hamas. Israele dovrebbe ringraziarci per quello che facciamo, perché nella scuola la maggior parte dei 1250 alunni era musulmana. E noi abbiamo sempre lavorato per la pace, abbiamo sempre insegnato ai nostri studenti ad accettare l’altro, ad accettare il diverso, anche quelli che considerano nemici.
Hamas vi ha mai creato problemi?
Io sono direttrice dal 2014 e non ho mai avuto grandi problemi. Una mia consorella, che la dirigeva prima di me, mi ha detto però che al suo tempo era davvero difficile perché i membri di Hamas erano molto, molto chiusi. Ma non mi faccia parlare di politica.
Mi parli della sua esperienza.
Noi abbiamo sempre accolto tutti. E tra gli studenti abbiamo avuto anche i figli di famiglie della Jihad islamica e anche i bambini di cinque famiglie di Hamas. Quando ho chiesto loro perché volevo venire nella nostra scuola, mi hanno risposto: “Perché so che voi educate bene i bambini”.
Perché accogliete tutti?
Per aprire uno spiraglio al dialogo, perché loro possano conoscerci e capire chi sono davvero i cristiani.
Lei ha lasciato la Striscia di Gaza dal valico di Rafah dopo Pasqua. È stato difficile raggiungerlo?
Abbiamo camminato tanto. C’erano combattimenti lungo la strada. Era tutto distrutto, si sentiva odore di morte sotto le macerie. È stata un’esperienza durissima.
I negoziati per il cessate il fuoco tra Hamas e Israele vanno avanti. Che cosa ne pensa?
Spero proprio che entrambi accettino. Non c’è alternativa: sia Hamas che Israele hanno già perso. Ora l’importante è raggiungere la pace. Ogni parte deve pensare alla propria popolazione: ai palestinesi e agli ostaggi. La guerra non porta a nulla, provoca solo distruzione e morte.
Come si fa a sperare ancora nella pace tra palestinesi e Israele?
La gente a Gaza ha già vissuto troppe guerre. Ci vuole un accordo per dire: mai più la guerra a Gaza, Gerusalemme, Cisgiordania. Bisogna imparare a vivere insieme. Tanti israeliani e palestinesi già lo fanno, i governanti di entrambe le parti devono scegliere la pace perché così non si può andare avanti. Pensi ai palestinesi nati nel 2007 a Gaza: che cosa hanno visto da allora? Una guerra dietro l’altra. Hanno visto i parenti morti, le case distrutte. Come vuole che crescano questi bambini?
Ce lo dica lei.
Odiando il nemico.

Come si fa a educarli a non odiare?
Noi dopo ogni guerra organizziamo programmi per far uscire la violenza dal cuore di questi bambini. Noi ci proviamo, educhiamo alla pace, ad accettare il diverso, ma a volte è un lavoro vano. Perché poi arriva un’altra guerra e l’odio verso Israele ricomincia. E come potrebbe essere altrimenti? Questi ragazzi non conoscono la pace, non l’hanno mai vissuta.
E lei non è tentata dall’odio?
No, io non odio nessuno. Tante volte però ho litigato con Dio, tante volte gli ho chiesto: “Signore, perché non fai entrare a forza propositi di pace nella testa di questi matti?”. Poi però capisco che il Signore è il Dio della pace e della gioia, non è Lui che fa le guerre, siamo noi. Le persone hanno ricevuto il dono della libertà, possono scegliere. E da troppi anni si sceglie di uccidere. Io però ho fede in Dio: Lui farà finire questa guerra. E ho visto che anche i cristiani di Gaza hanno una fede enorme: sono saldi nella speranza che la pace verrà e con essa giorni splendenti su Gaza.
Tornerà nella Striscia, a educare i palestinesi nella sua scuola?
Io so una cosa: Dio è il Signore della storia e sarà quello che Lui vorrà. Io sono disponibile e spero di tornare a Gaza quando questa guerra sarà finita.
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