Si chiama Area C, il sistema di accesso alla zona a traffico limitato nella Cerchia dei Bastioni entrato in vigore a Milano il 16 gennaio. L’ingresso nell’area delimitata è consentito nei giorni feriali, solo pagando un ticket di 5 euro, indipendentemente dal tipo di auto che si guida. Unici veicoli esenti, moto, motorini, auto elettriche e ovviamente i veicoli di emergenza. L’Area C, a distanza di mesi, continua a destare polemiche: difesa da chi la considera una mossa intelligente per contrastare l’inquinamento e per incentivare il trasporto pubblico e denigrata da chi pensa che si tratti di un mero modo, per il Comune, di fare cassa. Già bocciata dall’Amat, l’agenzia per l’ambiente e il territorio, che non rileva nessuna diminuzione del traffico, e da Legambiente («le poveri sottili sono fuori legge due giorni su tre») trova tra i suoi più inferociti detrattori i negozianti. Soprattutto i piccoli negozi della cerchia dei bastioni, che lamentano un calo di vendite che va dal 15 al 30 per cento. Certo, è colpa «un po’ anche di Monti», però sono parecchi i clienti che smettono di passare, o passano molto meno, perché «non possono lasciare fuori la macchina dieci minuti». Nelle traverse di via Dante, propongono di cambiare il nome alla congestion charge: «Dovrebbero chiamarla area chiusa. Noi qui siamo in ostaggio. Va bene respirare, ma dobbiamo lavorare!».
Il punto non è politico, ma squisitamente pratico: «Abbiamo esposto un cartello contro area C, esattamente come quando qualche anno fa volevamo protestare contro i motorini che occupavano il marciapiede» spiega Marco, oculista. «Abbiamo deciso di prendere posizione, è una questione di buonsenso. Va bene la tassa, ma occorre almeno adeguare la città. Per esempio migliorando il livello di illuminazione: già passa meno gente, se poi non è incentivata a camminare, noi come finiamo?». Il disagio maggiore è certamente per chi vive in centro: «Ho una decina di clienti che vivono qui, ma lavorano a Pavia o a Bergamo. Escono di casa prima, per non pagare i due euro, e tornano a casa più tardi, quando i negozi sono chiusi». Dello stesso parere è Alessandra, che ha una merceria: «Avevo notato un calo, ma non l’avevo subito imputato all’Area C. Insomma, le tasse, la crisi… Man mano mi sono resa conto che alcuni clienti erano spariti. E guarda caso, erano quelli che passavano in macchina».
Spesso capita che qualcuno entri addirittura a chiedere spiegazioni: ho comprato il ticket, ora cosa devo fare? «Abbiamo fatto una decina di chiamate al centralino prima di capirci qualcosa. E siamo entrambi sui quarant’anni, direi normodotati. Un delirio, non avevano spiegazioni da darci, una grande confusione. Capisco che siano i primi mesi, ma chissà quanti sono nella stessa situazione. Forse bisogna semplicemente abituarsi». Clienti a parte, un altro problema è quello dei rappresentanti. «Prima passavano ogni tanto, c’era una certa continuità, era utile. Ora bisogna pianificare: dato che pagano il ticket, fanno un giro ben preciso. E si fermano meno. In tanti mi chiedono di passare il sabato, quando l’Area C non vale. Io il sabato tengo chiuso, ma cosa posso fare? Sono piccoli fastidi».
In zona Porta Ticinese c’è un negozio di numismatica, gestito da nonno, figlio e nipote. Il più anziano scherza: «I vecchi fasti sono finiti». Non c’è nessuno e non c’è effettivamente un’aria particolarmente laboriosa: «Facciamo molta fatica. I negozi qui attorno continuano a chiudere, dopo sei mesi non riescono a reggere». Penna in mano, Franco calcola la differenza tra l’Ecopass e l’Area C e racconta che c’è anche chi boicotta i negozi che hanno appeso in vetrina un foglio A4 per protestare. «È stato strano, l’altro giorno: c’è stata una manifestazione contro Monti. A uno di quei ragazzi, che mi ha dato del ricco imprenditore, ho fatto vedere il negozio. Credo abbia capito, lo spero. Siamo tutti nella stessa barca». In tutt’altro quartiere, Crocetta, due fruttivendoli allargano le braccia: «Un disastro. Almeno prima c’erano le mamme, qui vicino ci sono tante scuole. Passavano a prendere i figli e poi si fermavano a fare un po’ di spesa, comprando la frutta. Ora i figli prendono il tram e tornano a casa. Siamo davvero preoccupati, ci spiacerebbe chiudere, è trent’anni che siamo qui».
Per bar e ristoranti il discorso è diverso. Lo riassume Francesco, tabaccaio: «I milanesi fanno fatica a cambiare abitudini. C’è chi prende la macchina anche per fare due fermate di tram. A farne lo spese siamo noi: chi abita in zona viene spesso qui, sono i clienti classici. Mentre sono praticamente sparite le colazioni al volo, prima di andare in ufficio. Vanno due vie più in là, dove possono parcheggiare. E poi l’asporto, fine di un’era: l’abbiamo addirittura eliminato». Gli orari stanno cambiando. Dato che il ticket si paga dalle 19.30, anche l’happy hour si posticipa. Lo spiegano pochi metri più avanti: «Altrimenti non viene nessuno. In pratica qui in centro è diventato una cena. Peccato che prima facessimo sia l’uno sia l’altro. Morale: guadagni quasi dimezzati».
Luisa, titolare di un bar in Corso Monforte è sintetica: «Sono contrarissima. Ma purtroppo a me, come a molti altri, il diritto di sciopero è negato. Mi tirerei la zappa sui piedi. Quindi nessuno si accorge del mio malcontento». E il cartello? «L’avevo messo fuori, anche come sfogo. Ma poi ci ho ripensato: sa quanti clienti se la sono presa? Polemizzavano, parlavano di danni all’ambiente, dicevano che ero del Pdl. Roba de matt. Non si tratta di Pisapia o della Moratti, si tratta di tasche piene e tasche vuote. Le tasche non hanno colore politico».
Twitter: @SirianniChiara