
Apple fa della protezione della privacy il suo cavallo di battaglia. Inclusione e diversità fanno parte da decenni della politica di «apertura» dell’azienda di Cupertino. Gli spot arcobaleno e multirazziali ribadiscono come il colosso della California accetti «tutti i credo, le disabilità, le etnie, le età, le ideologie, le personalità e le differenze». Ma tutto questo, davanti alla Cina, scompare. Una magistrale inchiesta del New York Times, infatti, dimostra come il produttore di iPhone e iPad, pur di realizzare colossali profitti, si è legato mani e piedi al Dragone, diventando il braccio armato della censura del regime comunista di Xi Jinping. Prima ancora che il governo lo richieda, migliaia di app vengono fatte sparire dall’App Store cinese, o non vi entrano solo perché invise al Partito comunista, al quale Apple consegna di fatto tutti i dati personali di migliaia di utenti, aggirando le leggi degli Stati Uniti.
In Cina 1/5 dei profitti di Apple
Le rivelazioni del Nyt, che ha visionato documenti esclusivi e che ha parlato con 17 dipendenti di Apple, oltre che con quattro esperti di sicurezza, dimostrano fino a dove si è spinto «Tim Cook pur di fare affari con la Cina». Oggi quasi tutti i prodotti di Apple vengono assemblati in Cina e l’azienda di Cupertino realizza nell’Impero di mezzo un quinto dei suoi profitti. Pechino permette ad Apple di guadagnare miliardi, ma chiede (e ottiene) molto in cambio. Scrive il Nyt:
«Il signor Cook parla spesso dell’impegno di Apple per le libertà civili e la privacy. Ma per stare dalla parte giusta dei regolatori cinesi, la sua compagnia ha messo i dati dei suoi clienti cinesi a rischio e ha aiutato la censura del governo nella versione cinese del suo App Store. Dopo che i dipendenti cinesi hanno protestato, ha addirittura cancellato lo slogan dal retro degli iPhone: “Progettati da Apple in California”».
«Apple strumento della censura»
Il processo, infatti, si svolge ormai da anni in Cina. «Apple è diventato un ingranaggio nella macchina della censura che presenta una versione di internet controllata dal governo», dichiara al Nyt Nicholas Bequelin, direttore di Amnesty International per l’Asia. «Se si guarda al comportamento del governo cinese, Apple non oppone alcuna resistenza».
Secondo il giornale americano, Apple blocca preventivamente e non permette l’ingresso nel suo App Store a decine di migliaia di app che potrebbero infastidire il governo cinese. Le applicazioni riguardano, ad esempio, aggregazione di notizie e giornali stranieri (e la libertà di stampa?), incontri gay (e i diritti civili?), organizzazione di proteste democratiche (e la libertà di espressione?), il Dalai Lama e molto altro.
Dal 2017, cancellate 55 mila app
Non si parla di una manciata di app, ma di 55.000 app dal 2017. Dal giugno 2018 al giugno 2020, Apple ha approvato il 91 per cento delle richieste del governo cinese e rimosso di conseguenza 1.217 app. Nello stesso periodo, nel resto del mondo, ne ha rimosse 253. Dal 2017, ha cancellato 600 app di notizie. Apple afferma di averne eliminate “soltanto” 70 perché, spiega il Nyt, Cupertino conteggia solo quelle che fa sparire su richiesta del governo e non «quelle che rimuove prima ancora che i censori di internet cinesi protestino».
In una conferenza in Cina nel 2017, l’amministratore delegato Tim Cook cercava di difendere così la scelta di fare affari in Cina in cambio del cedimento sul rispetto dei diritti e delle libertà dei consumatori cinesi: «La scelta è: partecipi? O ti fai da parte e ti lamenti di come le cose dovrebbero essere. Per me bisogna buttarsi nella mischia, perché non si può cambiare niente restando in disparte».
Apple è ormai made in Cina
In questi anni, però, a essere cambiata non è la politica di Pechino, bensì quella di Cupertino, che ha censurato l’emoticon della bandiera di Taiwan e include in quella cinese l’isola di Formosa. Doug Guthrie, docente universitario assunto nel 2014 da Apple per aiutare la Cina a districarsi nel complesso ambiente cinese, spiega che il governo ha speso «miliardi di dollari» per permettere a Apple di avere infrastrutture e fabbriche adeguate all’assemblaggio dei suoi prodotti. Oggi «i lavoratori cinesi assemblano quasi ogni singolo iPhone, iPad e Mac. Apple si porta a casa 55 miliardi di dollari all’anno dalla regione, un profitto superiore a quello di qualunque altra azienda americana in Cina». Un modello di business che «funziona solo in Cina», spiega al Nyt Guthrie, «poi però sei sposato alla Cina, che vuole qualcosa in cambio».
Che cosa può offrire Apple in cambio? Un bene che per il regime comunista è fondamentale: i dati personali, le foto, le chat, i video, le informazioni sui conti bancari e sulla posizione di tutti i suoi utenti cinesi. Come? Nel novembre 2016, la Cina ha approvato una legge che richiede che «le informazioni personali e i dati importanti» raccolti in Cina restino in patria. Apple si è sempre vantata di essere imbattibile sul rispetto della privacy. Fece scalpore la decisione nel 2016 di respingere una richiesta dell’Fbi di accedere al contenuto dell’iPhone di un terrorista che aveva ucciso 14 persone in California. Allora Apple inviò una lettera a tutti i suoi clienti, condannando la richiesta del governo degli Stati Uniti e rimarcando il valore imprescindibile della privacy.
«La Cina può prendere tutti i dati»
Nello stesso anno, alla chetichella, pur di non vedersi spegnere l’iCloud in Cina, Cook accettava di piegarsi alla nuova legge del governo, entrata in vigore nel giugno 2017. A partire da quella data, tutti i dati degli utenti cinesi sono stati trasferiti in Cina e le chiavi segrete per decrittarli sono state messe a disposizione di un’azienda di proprietà dello Stato. Ora, secondo gli esperti di sicurezza, «il governo cinese ha due modi per ottenere i dati: domandarli oppure prenderli senza chiedere nulla».
Per aggirare una legge Usa che vieta alle aziende americane di consegnare dati di qualunque genere ai regolatori cinesi, Apple ha ceduto la proprietà legale dei dati dei suoi clienti cinesi all’azienda di proprietà del governo cinese Guizhou Cloud Big Data (Gcbd), della quale Apple è ora un semplice «partner». Tra i termini e le condizioni che gli utenti sono obbligati ad accettare ne compare anche una inedita e non presente negli altri paesi del mondo: «Apple e Gcbd avranno accesso a tutti i dati che salvi sul server» e possono condividerli «tra loro in base alla legge». Grazie a questo sistema, quando il governo ha bisogno dei dati personali di un utente deve chiederli alla Gcbd e non ad Apple.
Il regime «ha accesso ai server»
I dipendenti della Gcbd, come dimostrano documenti visionati dal Nyt, hanno «l’accesso fisico ai server». Un ricercatore esperto di cybersicurezza all’Università di Cambridge, Ross Anderson, afferma che «i cinese sono dei violatori seriali di iPhone. Sono certo che avranno il modo di entrare nei server».
Parte dei documenti è stata ottenuta dal Nyt visionando le carte depositate nella causa legale tra Apple e Trieu Pham, che per l’azienda di Cupertino controllava le app che si candidano a entrare nell’App Store. Il suo lavoro era verificare che non violassero i regolamenti aziendali. Nel 2018, Pham ha approvato un’applicazione per l’App Store cinese invisa al regime, realizzata da Guo Wengui, miliardario in esilio negli Stati Uniti, che ha esposto la corruzione che vige nel Partito comunista cinese. Dopo l’approvazione dell’app, il 2 agosto, il regime si è infuriato, come rivela un allarmato scambio di mail interno all’azienda sulla necessità di rimuovere l’app «al più presto».
L’app da «cancellare al più presto»
Quando Apple chiese a Pham perché l’avesse approvata, questi rispose che non violava nessuna politica di Apple. I manager di Cupertino risposero che era «critica verso il governo cinese» e che questo era «sufficiente per respingerla». Sei mesi dopo, Apple licenziò Pham, che fece causa all’azienda accusandola di averlo estromesso «per compiacere Pechino».
In qualunque senso si risolva la causa legale, l’inchiesta del Nyt dimostra come tutto in Apple, come anche negli altri colossi digitali della Silicon Valley, ruoti intorno al profitto. E come le belle campagne che i “signori del web” ci propinano sulla libertà e il rispetto dei diritti civili siano essenzialmente marketing. In una parte del mondo (l’Occidente) vanno portate avanti per ingrassare il fatturato, in un’altra (l’Oriente) vanno censurate per lo stesso motivo. Apple fa l’una e l’altra cosa per massimizzare i guadagni ed è libera di farlo (per ora). Ma la prossima volta che vedrete il simbolo della mela morsicata su una campagna inneggiante alla privacy o ai diritti Lgbt, ricordatevi della Cina.
Foto Ansa