Andare a fondo della richiesta di una scuola in presenza

Di Matteo Foppa Pedretti
25 Marzo 2021
In molti chiedono un ritorno in classe per non arrendersi alla Dad. Cosa significa? Sei riduzioni e una opportunità
scuola in dad, un genitore fotografa un cartello di protesta

Una della novità più interessanti degli ultimi giorni, almeno da quanto appare dalle notizie che il sistema dell’informazione evidenzia o lascia passare, è sicuramente quella di una forte richiesta popolare di ritorno alla scuola in presenza.

Richiesta forte, che si traduce in frequenti articoli o interventi di critica alla modalità didattica della Dad, in manifestazioni per il ritorno nelle aule sotto quello o quell’altro tra i vari palazzi della politica (ministeri, sedi della Regioni, provveditorati) o davanti alle scuole, con sit-in di studenti, flash mob, etc. E da ultimo da una manifestazione nazionale in più di trenta città italiane.

Del fatto che la richiesta sia diffusa se ne ha conferma ascoltando i discorsi in metro o al supermercato, dove non infrequentemente persone di varia estrazione si scambiano pareri sulla necessità che i ragazzi vadano a scuola.

Uno spettro si aggira per l’Italia, dunque. Lo spettro della scuola in presenza. Questo è il dato, che ha una sua, per quanto relativa, imponenza. Uno spettro che mi interpella, come uomo di scuola. Come cittadino. Come padre.

Depotenziare la portata di una novità

Temo due cose: che la prossima nuova emergenza sul fronte Covid (l’andamento della campagna di vaccinazione, con tutti suoi imprevisti; il modificarsi dei dati dell’epidemia; la riffa quindicinale dei colori delle Regioni) riduca l’evidenza pubblica di questa richiesta, la depotenzi, la renda in qualche modo inopportuna, come una sorta di lusso che non ci si può permettere, dati i possibili guai più grossi.

E, forse ancora di più, che noi (e per noi intendo chi si occupa di scuola) si perda un’occasione per capire cosa chiede la “gente gente” (per usare una espressione dell’ultimo don Giussani), quando chiede più scuola.

Sì, perché se da un lato è evidente che la chiusura delle scuole sia stato un provvedimento restrittivo sostanzialmente privo di motivazioni epidemiologiche (non fosse altro perché fino a ieri non c’erano indagini che facessero temere che la scuola fosse un luogo di particolare contagio, e gli studi che cominciano ad essere pubblicati in questi giorni suggeriscono semmai il contrario…), sono possibili molte riduzioni del significato di questa richiesta.

Riduzioni che coincidono con letture reattive della nostra attuale situazione, e spesso con tutto quello che in realtà pensiamo della scuola.

Sei riduzioni e una opportunità

La prima riduzione (potremmo chiamarla “del risentimento sociale”) è riassumibile così: “Che andassero a lavorare, questi insegnanti, che piangono da sempre per la scarsa considerazione sociale in cui è tenuto il loro mestiere, adesso che c’è da guadagnarsi davvero lo stipendio per un servizio alla società”. Gretta, ma non impossibile (e forse alimentata anche da alcune posizioni sindacal-corporative che comunque ogni tanto si trovano…)

La seconda (“Notte prima degli esami…”) è la denuncia dell’insostenibile mancanza delle copiate, delle bigiate, della solidarietà tra i banchi, del broccolamento e dei grandi amori. Delle cazzate, dei disastri e delle grandi speranze. La mancanza del luogo in cui si svolge il necessario “Bildungsroman” della nostra vita, e di quella dei nostri figli. Emotiva, ma riflette un punto vero (il rischio della desertificazione dell’esperienza e il disagio, talvolta drammatico, di una generazione a cui sotto i piedi è franata gran parte delle occasioni di socialità).

La terza è il lamento sulla preparazione scolastica di cui la Dad fa strame, che è paradossale soprattutto quando proviene da chi ha esaltato ed esalta la funzione della scuola come trasmettitore di conoscenze e contenuti, e cerca di difenderla dal diventare luogo di maturazione di competenze.

La Dad, che non è detto che funzioni, o che funzioni a prescindere dalle condizioni, funziona comunque meglio come canale di trasferimento di contenuti che come luogo di esperienze formative. In altri termini Dad significa (almeno relativamente a se stessa) più conoscenze e meno competenze.

Chiedere una scuola in presenza

Che si chieda una scuola “presente” potrebbe significare recuperare la dimensione della funzione della scuola al di là della mera misurazione degli output di preparazione (leggasi voti) con i quali sempre più spesso si confondono l’eccellenza e la cultura.

La quarta, collegata a questa, è il “Requiem per la paideia defunta”, per il venir meno del rapporto individuale maestro-discepolo, considerato il punto nel quale si esaurisce tutta l’educazione e l’istruzione possibile. A prescindere e nonostante il peso della “istituzione scolastica”, tanto che si può teorizzarne l’esistenza in qualsiasi contesto.

Benché contraddittoria (se è il rapporto che conta, la mancanza della scuola è ininfluente, o no?) e, nella sua estensione, ambigua (si va dall’estremo positivo per cui “l’educazione è uno stato di grazia”, come dice Justin McLeod, protagonista del film L’uomo senza volto a quello negativo per cui l’asimmetria del rapporto tra maestro e allievo è l’anticamera del plagio o della sopraffazione), anche la richiesta di scuola in presenza che nasce da questa posizione rispecchia un aspetto irrinunciabile: l’istruzione e la formazione culturale e umana di una persona accadono in una trama di rapporti umani, e non sono solo esito di un processo “industriale”.

Galera paranoica

Con la quinta riduzione ci troviamo all’estremo opposto: potremmo considerarla come la conferma della teoria di Michel Foucault secondo la quale la scuola, al pari della caserma, del manicomio, dell’ospedale e del carcere, è una istituzione concentrazionaria finalizzata al controllo sociale.

Quando si insiste troppo sul fatto che la scuola (a differenza della famiglia, del parchetto o del marciapiede in riva al bar) è un luogo controllato e sicuro, dove l’attenzione al distanziamento, le misure individuali anti Covid e il tracciamento dei contatti stretti sono se non garantiti, almeno presidiati, da un lato si dice il vero, dall’altro si rischia di andare verso una immagine di scuola che assomiglia a una galera paranoica in cui si sta seduti nove ore in un banco, si passa la ricreazione in un cerchio di un metro di raggio, si scambia la cittadinanza attiva con la conoscenza dell’ultimo Dpcm e si impara che la nuova normalità è l’assenza, sia pure in presenza, del contatto fisico con l’altro. Pena lo sclero isterizzato di tutta la struttura, dal preside a tutto il personale docente e non docente. Con corollario di sanzioni disciplinari, stigma sociale e polemiche da reality sui social e nella peggiore delle ipotesi pure sui giornali locali.

Eppure, anche in questa motivazione alla richiesta di tenere aperte le scuole c’è una scheggia di vero, una domanda di un luogo ordinato, che dia qualche risposta e qualche modalità gestibile per vivere una prospettiva di uscita dalla pandemia (che – si percepisce con quello che è rimasto sano nel nostro intimo – non durerà in eterno…).

La scuola come ultima tata

Infine, esiste una sesta motivazione, riduttiva eppure in qualche modo disarmata e profonda, che normalmente è quella che fa incazzare di più chi come me lavora nella scuola: la scuola “ultima tata”…

La madre alle prese contemporaneamente con il suo smart working, la distrazione del figlio adolescente diviso tra Teams e Instagram, i pianti di quello piccolo per l’insuccesso rimediato a distanza, le pentole sul fuoco e il Wi-fi che non regge la quantità di apparecchi collegati, chiede che ci sia qualcuno che condivida il peso della quotidianità. Chiede che esista un luogo non occasionale che sostenga lo sforzo. Un alleato affidabile che si metta in mezzo tra me e la mia solitudine.

Fa incazzare gli addetti ai lavori perché non sembra considerare ciò che è proprio della scuola, cioè la trasmissione del sapere. E questo è vero: c’è il rischio che la scuola venga richiesta solo come il surrogato della baby sitter. Ma potrebbe esserci, insperata, l’indicazione del livello corretto al quale affrontare la questione. Il grido di dolore di chi non riesce a gestire una normalità impazzita dice cosa manca. Ora. A quale livello cominciare, finalmente, a rispondere.

(1 – continua) – Foto Ansa

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