Ho sempre amato leggere e scrivere gialli e thriller. Ma mi manca il delitto perfetto. Eppure sarebbe straordinario. Già me ne immagino la trama, cioè il filo tessuto a cui cucire bottoni, fregi e pizzi. Un ordito colossale, ricco e intricatissimo; un vero parapiglia e un’autentica ragnatela irta d’insidie, porte girevoli, colpi di scena, personaggi, comparse, case, alberi, fiori, piante, biciclette, cani randagi, gatti miagolanti alla luna, ricche ereditiere, maggiordomi infingardi, postiglioni impassibili assisi su carrozze cigolanti.
Un giorno, misteriosamente…
Una trama enorme, maestosa, possente come un fiume in piena, eppure delicata come il cinguettio di un allodola che passa il suo tempo a cantare al sole giacché non ha alcun motivo per preoccuparsi, proprio come i gigli del campo, dell’abito che indosserà. Una storia grandiosa, in cui ci sono almeno quattro, anzi no cinque, sei e pure sette belle cene, con tavole imbandite delle pietanze più prelibate, degl’intingoli più appetitosi, dei vini più profumati. E dolci, caffè colombiano tostato all’italiana, fiumi di prelibato Torres e un sigaro profumato. Una vicenda che… accidenti!, non riesco a buttar giù. Ma da qualche parte c’è; lo so, ne sono sicuro. Come se un altro l’avesse già scritta, da sempre, e io brancolassi al buio cercandone a tentoni qualche brandello. Lo so, lo so che corro il rischio di passare per quell’allampanato giovane idealista di cui una volta vi ho raccontato. Non lo ricordate? Ma sì, quello che dall’alto della sua micragnosa spocchia sbarbatella un giorno intervenne saccente a una mia conferenza dicendo che nella sua testa esisteva un poema maggiore persino della Divina Commedia. Nella sua testa…
…prese a nevicare…
Oltre che per i polizieschi dalle storie dense, i misteri con le soluzioni che si raggiungono solo dopo molta fatica e molto peregrinare, ho sempre avuto una passione smodata per le sciarade, i calembour e i giochi di parole. Eppure, anche se ho scritto tonnellate di cose, e dei più diversi generi letterari, non ho mai pubblicato il manuale del perfetto enigmista. Anche perché, tutto sommato, l’enigma più bello (per favore, desentimentalizzate questo suo malgrado abusato aggettivo: proprio non lo sopporterei…) è quello di cui in realtà sono andato scrivendo persino sui muri (quasi letteralmente). Cioè le cose che mi sono state accanto, la realtà che mi ha circondato, i fatti che mi sono caduti addosso (proprio come quando nevica: fiocca imperturbabilmente a perpendicolo, ma per strada, in sella alla bicicletta, sembra che venga tutto solo addosso a noi man mano che pedalando avanziamo). Insomma, l’enigma, il cui vero nome è poi quello di un grande, fitto, affascinante mistero. Oops… mi è scappata ancora la parola. Scusate la ripetizione. Non sarà da grande scrittore, ma forse da grosso sì….
…e il vento a soffiare sotto il cappello…
Come è accaduto a quel tale che, passeggiando nel parco, fu scappellato da una folata di vento che si abbatteva gagliardo. Il tipo si china, ma ancora quella ventosa gagliardia torna ad allontanargli la bombetta. Lui ci riprova, e il vento pure. Allora il tizio accetta la sfida e, impugnato a guisa di fioretto l’inseparabile ombrello che porta al gomito, en garde!… ingaggia singolar tenzone con quel riottoso copricapo animato dalla brezza; un cappello che parrebbe non voler sentire ragioni, che proprio non vuole (come dovrebbe) tornare al proprio posto. E in torto è lui, il cappello. Che senso ha, infatti, un copricapo se non copre un capo? È questo il disordine dell’universo, così che tutti e tutte le cose non stanno più al posto assegnato loro dal Grande Organizzatore (che non è, mi raccomando, solo il Grande Architetto dell’Universo), smaniando di essere un’altra cosa.
Per esempio uomini che vogliono essere donne, e viceversa, e vie di mezzo; padroni che giocano a far le maestranze (assumendo su di sé tutta la natura dell’operaio, tranne il sudore) e maestranze che giocano; studenti che pontificano e professori che balbettano; genitori puerili e figli decrepitamente vecchi; economisti che, contando nichelini, governano e uomini politici che neanche contano; scrittori analfabeti, giornalisti alla giornata e imbonitori di stucchevole bonomia. Potrei continuare all’infinito, ma mi sono già annoiato. E poi vorrei dirvi altro. In fin dei conti è di me che volete leggere, è la mia vita che mi avete chiesto di raccontare.
…nel mezzo del cammin di nostra vita
Se la descrivessi usando un mio titolo, Le avventure di un uomo vivo, voi ve l’aspettereste. E allora lo faccio di proposito. Avventure di un uomo vivo, già; sembrerebbe una banalità, ma il nome degli zombie che oggigiorno s’illudono di vivere è legione. Provate a girarla e la frase risulterà più evidente: per definizione, un morto non vede, non prova, non vaglia, non subisce, non sperimenta le cose, né si scontra con esse. E quindi non può far tesoro di ciò che c’è. Sarà pure una formula sfruttata, ma in fin dei conti il copyright è mio e quindi la uso come e quando mi pare.
Sì, è stata un’avventura, una Grande Avventura. Una regata come poche, fra burrasche e insenature di sogno; una scalata straordinaria fra picchi e desolazioni; una traversata di cui ho molto da rimpiangere, ma ancora di più da ringraziare. Mi sono divertito, pensavate il contrario? Cioè me la sono goduta, anche quando faceva male.
Ho sempre pensato, e scritto, che fosse davvero, profondamente, infallibilmente cattolico avvolgermi al mattino nel mio caldo, largo (noblesse oblige, vista la mole che ho raggiunto con la maturità) pastrano, inforcare i miei occhialini e brandire il bastone da passeggio dolce e forte come si conviene con una spada (che ha due tagli, ma che è donna) per lanciarmi nel più singolare e ardito dei voli d’Ulisse. Cioè una passeggiata, lenta e ritmata, lungo il vialetto che conduce là, fino a quell’albero verde e maestoso che sono certo ritroverò (a Dio piacendo) in Paradiso, più verde e più maestoso che mai. Una promenade nel mio feudo, da suo signore quale sono: cioè una camminata fra le panchine, le siepi, gl’ingressi dei negozi con i loro gestori a volte sorridenti altre imbronciati, gl’idranti dei pompieri, i lampioni, qualche passeggiatore lento e rilassato oppure dei ritardatari che si affrettano, un passerotto che saltella in cerca di briciole, e quel vento impetuoso che ce l’ha con gli chapeaux e che spesso torna a punzecchiarmi.
Ho sempre pensato che fosse fondamentalmente cattolico anche sedersi alla tavola luculliana o misera di un ricco commensale o di un povero diavolo che però ti offre generosamente non tutto quello che ha (perché altrimenti sua moglie e i suoi figli, di cui ha la prima responsabilità, morirebbero di fame maledicendolo), ma quello che può. Ringraziando, conoscendo con il gusto e con l’olfatto, penetrando il cibo. Per questo la cucina dei Paesi protestanti è tanto scadente e quella italiana sublime.
C’è chi ha fatto di me una sorta di cripto-socialista e Michael Novak mi ha trasformato, bontà sua, in una sorta di capitalista moderato. Quando ho scritto di Roma negli anni Trenta mi hanno scambiato per un fascista, ma per altri (visto che ho anche fatto propaganda durante la Grande Guerra) sono solo un intollerabile nazionalista molto, troppo anglofilo. Qualcuno considera la mia poesia scadente, addirittura orrenda. Per altri il mio giornalismo è semplicemente troppo, mentre alcuni considerano i miei romanzi idioti e completamente assurda la mia economia (sociale di mercato, con l’idea del “giusto prezzo medioevale” e la diffusione capillare della proprietà privata nel corollario di una civiltà sintetizzata nella frase Small Is Beautiful, di cui porto la responsabilità assieme ai miei amici Hilaire Belloc e Vincent McNabb, padre dell’ordine predicatore dei Domini canes). Nonché dozzinali i paradossi miei e di Mr. Pond, e il resto solo feccia. Alcuni, altri no, ma io per primo fra i primi. Eppure quanto ho scritto mi piace, anche se con i miei poemi Lepanto e The Ballad of the White Horse nemmeno ho osato pensare di rubare il mestiere a Dante o d’intronizzarmi a Stradford-upon-Avon. Li ho solo scritti. Questa è stata la mia avventura. Viva. Evviva. Lo rifarei, anche subito. Ma qui, dall’Aldilà da cui vi scrivo, cari amici, si gode un panorama impagabile, la cucina è sublime e il bere non si paga e non fa male.
Gesù istituì quella grande cosa che è il cristianesimo non con un libro o una scuola, ma a cena fra amici (e qualche nemico). E quelli là scrivevano certo peggio di me. O magari anche meglio. Ma, a questo punto, m’importa poco.
Vi lascio con un consiglio. Vale la pena, date retta a me. Esperienza assolutamente da fare. Occasione da non bucare. Decisione da prendere. Sfida da accettare. Ah già: “quale?”, chiedete voi. Ma quella della vita, ovviamente. Che siccome ha un Regista di quelli inimitabili, è davvero un film da non perdere. Anzi un Giallo meraviglioso dove l’Assassino lo acciuffi sempre (e non fa il maggiordomo).