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Alé, il razzista del giorno è “la moda italiana”

Cos'hanno in comune un maglione-passamontagna, una scimmietta e gli spot con bacchette e spaghetti che tanti lutti addussero a Gucci, Prada e Dolce & Gabbana? La nazionalità. Ora tocca alle passerelle finire a processo

Caterina Giojelli
30/06/2020 - 1:00
Società
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Ovviamente l’antirazzismo non poteva che risolversi in una cosa da Benetton tutta united colour, almeno nella moda, il settore ontologicamente meno inclusivo del mondo, dove «scandali come il maglione blackface di Gucci denotano idee colonialiste sull’identità». Ultimo di una serie di originalissimi articoli tutti tesi a trovare il razzista del giorno, il Guardian si chiede quanto sia colpevole l’industria della moda italiana nell’emergenza razzismo e la risposta è tanto, tantissimo. L’immaginario razzista è costellato di capi e fatti incresciosi: cosa hanno in comune il maglione nero a collo alto con passamontagna contornato da grandi labbra rosse di Gucci, il pupazzetto della scimmietta Otto della linea Pradamalia o la pubblicità di Dolce & Gabbana che mostra una donna cinese che fatica a mangiare spaghetti e pizza con le bacchette? Provengono tutti da aziende italiane.

CHIEDERE SCUSA “A TUTTI I CINESI DEL MONDO”

E se un maglione, un pupazzetto e due bacchette sembrano poco per processare un intero settore con l’accusa più infamante, non va dimenticato che poi Gucci ha ritirato il maglione con tantissime scuse, ha assunto un direttore per la diversità e l’inclusione, ha istituito borse di studio internazionali e investito 5 milioni di euro in “programmi comunitari”. E che Prada ha ritirato la scimmietta Otto, raggiungendo un accordo nientemeno che con la Commissione per i diritti umani della città di New York (devolvere i ricavati degli oggetti offensivi a una ong per la tutela delle minoranze), Miuccia ha anche promesso donazioni e di seguire corsi di formazione sulla diversità e di istituire un Consiglio Consultivo dedicato all’inclusione e alle assunzioni una serie più diversificata di candidati, nonché ha consentito un «monitoraggio esterno dei suoi progressi per i prossimi due anni». Quanto a Dolce & Gabbana, non c’è alcun bisogno di ricordare il mea culpa video diffuso urbi et orbi in cui dopo la cancellazione della sfilata-kolossal programmata a Shanghai si scusarono “moltissimo”, “con tutti i cinesi del mondo”.

“SONO L’UNICO NERO IN ASCENSORE”

Tenere a mente tutto, perché oggi le scuse non cancellano il peccato originale: la matrice italiana. Questo è il problema, «e non sono affatto stupito», tuona Edward Buchanan, patron del marchio di maglieria Sansovino 6. Buchanan (che pure è decollato nel mondo della moda perché la famiglia Moltedo, ex proprietaria di Bottega Veneta, gli offrì un ruolo apicale e che ha deciso di trasferirsi a Milano dagli Stati Uniti), accusa i colleghi italiani di usare modelle e modelli neri in passerella o in copertina ma non assumere stilisti o affidarsi a buyer neri. Entrando in ascensori «in cui sono l’unica persona di colore lì dentro sento una fitta atmosfera di disagio», assicura poi il fotografo Kudzai King, finito in quegli ascensori dopo essere stato chiamato da Vogue Italia.

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IL FLOP DEL BRAND CONTRO LE DISCRIMINAZIONI

Il 20 giugno Concita De Gregorio pubblica una lettera di Stella Jean, padre torinese, madre di Haiti, stilista lanciata da Giorgio Armani che ha infiammato Piazza del Popolo a Roma alla manifestazione per George Floyd invocando lo ius soli. In quanto «prima stilista nera italiana e al momento purtroppo l’unica, membro della Camera della Moda», Jean (che a WWD aveva parlato di razzismo in Italia come di “barbarie normalizzata”), ha quindi denunciato anche a Repubblica «l’indifferenza a km zero» e la mancanza di copertura mediatica e risposte dai colleghi che ha avuto la sua campagna, patrocinata dalla presidenza del Consiglio dei ministri, di un brand di moda dedicato a mettere in luce la discriminazione razziale in Italia: «“Italians in becoming”. Abbiamo fatto l’Italia, ora facciamo gli italiani. Non ho ottenuto alcun tipo di reazione dal 99% delle testate».

“NON STUDIATE IL COLONIALISMO A SCUOLA”

Dal flop del brand alla diagnosi di razzismo il passo è brevissimo. Come spiegarsi altrimenti il post su Facebook (sic) del consigliere leghista Daniele Beschin a commento della copertina di Vogue Italia dedicata a Maty Fall Diba, originaria del Senegal e modella di Valentino, col titolo “italian beauty”? «Una bellissima ragazza, da lì a dire che è una bellezza tutta italiana ce ne passa», ha scritto Beschin. Che c’entri il leghista col razzismo dell’industria della moda non si capisce, ma tant’è: per Buchanan, per cui l’Italia è evidentemente “tutta Beschin”, la radice del problema razziale della moda italiana affonda in una storia coloniale che non viene affrontata: «Nessuno parla della storia coloniale in Somalia, Eritrea e Libia. Non sono sicuro che gli argomenti vengano affrontati a scuola». E sempre a proposito di scuola, Buchanan non ricorda «di avere mai avuto uno studente nero nella mia classe. È scioccante», ha detto al Daily Beast, come se il problema dell’accesso alle spesso costosissime scuole di moda italiane fosse solo delle minoranze.

ANCHE MILANO HA IL SUO SCANDALO BLACKFACE

Proprio il Daily Beast si è appena lanciato in un bizzarro giro di opinioni di insider a Milano, dedicando una quintalata di battute al resoconto di Louis Pisano, pr di un’agenzia di moda, di una serata esclusivissima del 2013 a tema “Disco Africa”, con influencer, stilisti, imprenditori, modelle, fotografi, pubblicitari coinvolti nell’immancabile “caso blackface” retroattivo (nulla a che vedere con il putiferio suscitato da casi analoghi in America): una volta pubblicate le foto del party milanese, tutti hanno dovuto scusarsi a mezzo post e comunicati zeppi delle solite buone intenzioni ma nulla è cambiato, nemmeno lo scandalo Dolce & Gabbana e i boicottaggi di massa online ha impedito a donne del calibro Greta Gerwig, Blake Lively, Kate Middleton e Melania Trump di continuare a indossare Dolce & Gabbana. Il razzismo italiano è infatti subdolo, anzi per dirla col giornale, “aggressivo passivo”, “più simile alla xenofobia”. Se non volessimo buttarla in caciara diremmo che non passa mai di moda, ma chi ha iniziato a ridurre il razzismo a una cosa da Benetton di facciata e l’integrazione a un sistema tutto blackwashing, quote, comunicati stampa e donazioni anticolonialiste per pagare pegno dietro le quinte?

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