«Crisi? Non abbiamo ancora visto nulla. La politica cambi registro: meno protezione, più libertà»

Di Peppe Rinaldi
01 Agosto 2022
«Con l'elemosina di Stato non ci si salva. Ci aspettano sfide che farebbero tremare i polsi anche se fossimo governati da Einaudi e De Gasperi». Intervista ad Alberto Mingardi
draghi
«La liberalità talora ostentata da parte di questo governo è un precedente pericoloso. I governi successivi nasconderanno nuova spesa e nuovo debito dietro l’argomento “l’ha fatto anche Draghi”» (foto Ansa)

Anche l’economia, la politica e, quindi, la politica economica di una nazione (absit iniuria verbis) avrebbero bisogno di chiamare le cose con il loro nome. Non è una fissazione di Tempi, che pure ci starebbe tutta intera, quanto piuttosto l’utile ricorso al principio di realtà: semplifica, aiuta e rende chiaro ciò che le sofisticazioni verbali di questa era coprono con un velo neppure tanto pietoso. Draghi non c’è più, e questo lo stiamo dicendo tutti e in tutte le salse. C’è però lo scenario economico del prossimo futuro e la condotta di uno Stato che ricorre agli strumenti che conosce per far fronte alla crisi.

Comune denominatore è l’elargizione dall’alto verso il basso di danaro che sarà prima “sussidio” poi “ristoro” e adesso “aiuto”: tutti preceduti da una D maiuscola per indicare il decreto statale di riferimento normativo. È giusto? È sbagliato? Funziona, non funziona, dove andremo a finire? Se l’è chiesto il 28 luglio sul Corriere della Sera il professor Alberto Mingardi, direttore generale dell’Istituto Bruno Leoni, uno che queste cose le conosce e, soprattutto, le capisce.

Professore, lei ha parlato di “Stato elemosiniere”. Qualcuno potrebbe obiettare: ma non è che ormai i buoi sono scappati dalla stalla e altra soluzione non c’è?

Per parlare di una soluzione bisogna prima intendersi su quale sia il problema. Nel nostro paese distribuire elemosine è una sorta di soluzione universale. Se l’obiettivo è rendere una porzione sempre più ampia della società italiana dipendente dallo Stato e dunque dalla politica, la strategia scelta è impeccabile.

Tra i governi succedutisi negli ultimi trent’anni quale è stato quello che ha più esercitato la “elemosina”?

Per ovvi motivi, il secondo governo Conte, quello che ha dovuto gestire l’emergenza Covid, ha segnato una discontinuità importante: l’estensione della mano pubblica, con la pandemia, si è allargata decisamente. In parte questo corrispondeva a una necessità: lo Stato ha impedito a tutta una serie di attività di operare come avrebbero desiderato fare, è stato necessario compensarle. In parte però la pandemia è diventata un grande pretesto per imporre un’agenda politica fortemente statalista. Tant’è che la spesa non è cresciuta in ragione della sanità (il terreno sul quale si sviluppava l’emergenza) ma di tutti gli altri progetti che sono stati estratti dai cassetti dei ministeri.

Sono stati tutti, da questo punto di vista, elemosinieri in pari grado oppure qualche tentativo di invertire la rotta c’è stato? Se sì quando e chi?

Dopo il governo Monti il controllo della spesa pubblica è uscito dall’agenda politica italiana. C’è stata la stagione dell’«andiamo a Bruxelles a picchiare i pugni sul tavolo», poi quella dell’«aboliamo la povertà», poi quella de «i soldi ci sono». Se dobbiamo distinguere fra retorica e fatti politici, possiamo notare che il primo governo Conte, quello del reddito di cittadinanza e di quota 100, ha fatto meno disavanzo di tutti gli altri governi italiani dal 2007. È un merito che andrebbe riconosciuto al ministro Tria, che ha ben governato le finanze pubbliche in un momento difficilissimo. Ma è anche un merito che andrebbe riconosciuto al vincolo esterno, che in quel caso ha funzionato egregiamente.

Quale sarebbe una via d’uscita immediata?

Non esistono vie d’uscite immediate. Ma la prima cosa sarebbe cambiare le parole della politica. Meno protezione, più libertà. Meno diritti, più opportunità. La retorica politica può essere di qualità altissima o mediocre ma ha sempre una importanza straordinaria. Batte il tempo dell’opinione pubblica e orienta le aspettative delle persone.

Quanto è centrale la questione demografica?

Il rattrappimento demografico del paese è il segnale più forte di quanto poco noi stessi crediamo nel nostro futuro. Le persone giovani sono il motore della crescita di un paese: significano nuove idee e nuovi consumi. Un paese vecchio ha, per così dire, limiti endogeni a quanto può crescere.

Incrementare le nascite finanziando la maternità potrebbe davvero far cambiare direzione alla nostra economia nell’arco di un decennio? In quanto tempo presumibilmente potrebbero esserci effetti sul sistema?

Se fare dei figli e quanti farne è una decisione degli individui ed è bene che resti tale. Non credo andrebbe finanziata la maternità né altre scelte di vita. Si possono fare molte cose per aiutare le giovani coppie a conciliare famiglia e lavoro e si può cercare di liberare l’economia per creare più opportunità di impiego e affievolire il peso sui salari di contributi e fiscalità. Ma nemmeno queste cose di per sé bastano a generare crescita demografica. Le persone scelgono di fare figli o meno sulla base di molti fattori. Vivere in un paese di cui si percepisce che avrà un futuro è uno di questi, ma non l’unico.

Pensa che su questo punto (demografia, nascite, etc) la politica della spesa pubblica potrebbe essere efficace o c’è bisogno prima di un cambio generalizzato della “mentalità”?

Non credo che finanziare la maternità sarebbe né efficace di per sé né necessariamente “etico” – esattamente come non sarebbe “etico” disincentivarla.

Se è vero, com’è vero, che lo Stato in passato ha lasciato una certa libertà d’impresa per far sì che i nostri nonni e i nostri padri allevassero figli non destinati a fare il loro stesso mestiere (agricolo, operaio, artigiano etc), oggi abbiamo il problema opposto: tanti figli di contadini sono medici e avvocati o altro fino al punto, però, che oggi manca la continuità “aziendale” e non c’è più chi la terra la lavori, come si può bilanciare questo squilibrio?

Non direi che lo Stato in Italia abbia mai lasciato molta libertà d’impresa. Più che altro, in un particolare contesto (quello del boom economico) ha saggiamente chiuso gli occhi e lasciato che l’impresa privata si sviluppasse a dispetto di norme che avrebbero potuto strangolarla nella culla. Non esiste una proporzione fra il numero di medici e quello degli artigiani da seguire religiosamente. Per nostra fortuna, molti mestieri di settant’anni fa non ci sono più, sostituiti da processi meccanizzati che ci fanno risparmiare fatica. Altri mestieri che solo dieci anni fa non esistevano oggi sono sulla bocca di tutti. Bisogna evitare di ostacolare questi cambiamenti, anche perché nella migliore delle ipotesi si riesce solo a rallentarli, per giunta con un costo significativo. Certo, è importante che scuola e università non offrano prospettive irrealistiche, non convincano che il conseguimento del “pezzo di carta” crea una sorta di diritto implicito a quel particolare impiego. Per la verità, comunque in Italia diplomati e laureati sono al di sotto della media europea. E mi sembra che gli studenti universitari di oggi non inseguano tanto una laurea che consegni loro il biglietto d’accesso a una professione quanto competenze che possano poi usare a più ampio raggio

Tra le mille ricette economiche di queste ore (dentiere e pensioni comprese) ne intravede qualcuna adeguata alle sfide?

No.

Pure Draghi quindi si è allineato a questo andazzo nel pur breve periodo di governo?

Il governo Draghi non è poi stato tanto breve. È, per durata, il diciottesimo governo della Repubblica, è durato grosso modo quanto il governo Monti. Sicuramente è stato molto importante per la campagna vaccinale: affidarla al generale Figliuolo è stato un lampo di genio. Ma sulla finanza pubblica il governo Draghi non ha stretto i cordoni della borsa, ha anzi assecondato volontà e ambizioni della maggioranza che lo sosteneva. È chiaro che le condizioni erano, sotto il profilo politico, complicate. Si tende a pensare che una maggioranza così ampia faccia sì che destra e sinistra mettano da parte le loro bandiere elettorali per fare il bene del paese. In realtà gli uni e gli altri difendono disperatamente le spese che vanno a vantaggio dei gruppi di interesse a loro prossimi. Ma è anche vero che l’anno scorso si è persa una grande occasione. L’economia cresceva al 6 per cento, se non metti sotto controllo le finanze pubbliche in una fase espansiva quando lo fai?
Dobbiamo anche sapere che la liberalità talora ostentata da parte di questo governo è un precedente pericoloso. I governi successivi nasconderanno nuova spesa e nuovo debito (che ormai si chiama con formula eufemistica “scostamento di bilancio”) dietro l’argomento “l’ha fatto anche Draghi”. Con la non trascurabile differenza che i loro premier non avranno quel prestigio internazionale e quella riconosciuta credibilità che ha fatto sì che nei confronti di Draghi non si attivasse il vincolo esterno

Berlusconi ha detto in tv che sulle imprese e sulle aziende ancora non ci sono stati effetti veri della crisi e che chi racconta scenari catastrofici è figlio del pessimismo: è così?

Immagino che il Cavaliere voglia più che altro smentire chi vede nell’avvicendamento fra governo Draghi e un ipotetico esecutivo di centrodestra il passaggio dall’Accademia di Platone a una bisca clandestina. In questo credo abbia ragione. I partiti di centrodestra non brillano per grandi proposte economiche, ma nessuno di loro questa volta vuole uscire dall’euro o stampare mini-bond. Alla fine è più importante che non vi siano proposte pericolose, che circolino idee brillanti. Però siamo in una situazione che dire preoccupante è dir poco. Abbiamo l’inflazione più alta degli ultimi quarant’anni, e due generazioni di persone che non ne hanno mai fatto esperienza prima. Buona parte dell’élite politica occidentale vuole farla finita con la globalizzazione e dividere il mondo di nuovo in blocchi, senza comprendere gli effetti che ciò avrebbe su disponibilità e prezzo di molti prodotti. Abbiamo costi dell’energia elevatissimi, in parte a causa della guerra in parte a causa delle nostre stesse scelte politiche: nei prossimi mesi potremmo non essere più padroni del nostro termostato. Abbiamo un debito pubblico che è una volta e mezzo il Pil. E un insieme di politiche destinate a mortificare la cultura dell’iniziativa in nome della “protezione” pubblica. Sono sfide che farebbero tremare i polsi anche se fossimo governati da De Gasperi ed Einaudi. Non so a lei, ma a me non sembra che De Gasperi e Einaudi siano candidati alle prossime elezioni.

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