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“Addio rivoluzione”, la testimonianza della nostra sconfitta

Il diavolo recensisce il "Requiem per gli anni Settanta" di Maurice Bignami. La prova che esiste un nocciolo duro del cuore che neanche il peggiore dei mali può penetrare

Berlicche
16/06/2020 - 11:33
Cultura
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Maurice Bignami e Maria Teresa Conti durante il processo a Prima Linea

Articolo tratto dal numero di giugno 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

Mio caro Malacoda, è arrivato nelle librerie italiane Addio rivoluzione di Maurice Bignami (Rubbettino). Il titolo è definitivo. Nel senso della scelta di vita, intellettuale, morale e politica dell’autore. E nel senso che dice in modo icastico (addio) quello che si dovrebbe fare con i rimasugli di quella che è stata sicuramente una grande utopia, durata settant’anni, e che proprio negli anni Settanta del secolo scorso ha avuto in Italia il suo ritorno di fiamma (e di morte). Anche il sottotitolo di questo saggio storico-biografico non lascia dubbi: “Requiem per gli anni Settanta”.

Bignami di quegli anni Settanta fu protagonista. Figlio di un partigiano emigrato in Francia, militante e dirigente di Potere operaio, dell’Autonomia organizzata, fu comandante militare di Prima linea, la meno nota ma più numerosa organizzazione terroristica che insieme alla Brigate rosse e ai terroristi di destra macchiò di sangue quel decennio e uno scampolo di quello successivo.

Ai giovani d’oggi sembra incredibile che solo quarant’anni fa per fare politica e cambiare il mondo si sparasse nelle strade, nelle università, nelle fabbriche. Una “geometrica potenza”, si diceva.

Per noi questo libro è una testimonianza della nostra sconfitta, dopo la pur lunga impressione di una travolgente imbattibilità.

Copertina di "Addio rivoluzione" di Maurice Bignami

Bignami racconta questa parabola, e la testimonia. Racconta il nostro successo, lo analizza nella capacità di seduzione che ebbe nella quotidianità dei sogni, delle idee e della militanza di migliaia di giovani.

Non erano un fenomeno di minoranza, i “militari” nuotavano nel mare accogliente di chi li proteggeva, li accoglieva nei cortei, li foraggiava ideologicamente e ne difendeva la purezza dell’ideale e la comune appartenenza distinguendosene tardivamente per i metodi, “compagni che sbagliano”. Bignami mette a nudo tutto ciò, traccia i percorsi individuali, rivela la “logica” che sottostava alle scelte e la naturalità che la violenza aveva assunto dopo la prima decisione di imbracciare le armi.

Il problema è sempre il primo passo. Ma anche l’ultimo: il destino di morte di ogni ideologia che si traveste da ideale. Anche questo Bignami racconta analiticamente. Il carcere, il matrimonio dietro le sbarre, la folle idea di voler mettere al mondo dei figli mentre si è in galera, l’incontro con un frate, quello con un carabiniere che lo sorvegliava durante il processo, la lunga presa di coscienza, prima individuale e poi di gruppo, che porta lui e molti alla dissociazione, al dialogo con la Chiesa, all’abiura di una fede secolarizzata più fanatica di ogni confessione settaria e che si concretizza nella restituzione delle armi, nell’abbraccio della democrazia e della sua prassi. Tutto questo, incredibilmente, celebrando in cella il congresso di scioglimento di Prima linea.

Io però mi sono fatto una convinzione: tutto è successo in un istante. Prima dell’arresto. Un istante prima. Prima dell’incontro con padre Bachelet, prima dell’incontro con l’ausiliario Giuseppe Fidelibus. Bignami lo spiega come un momento di coscienza politica. Lo racconta così:

«Fui catturato a Torino nel corso di una rapina. Ero di “copertura” […] persi il contatto visivo con gli altri compagni in fuga. Ero sufficientemente armato per non permettere all’avversario di avvicinarsi e per garantirmi uno sganciamento senza eccessive difficoltà. Oltre alle pistole, avevo in dotazione un mitra e alcune bombe a mano. Utilizzai il mitra per colpire le autovetture e tenere i poliziotti il più lontano possibile, ma non usai le granate. Eravamo ormai fuori da un progetto politico d’organizzazione. Eravamo essenzialmente una comunità di reduci e non mi ritenevo più legittimato (semmai lo fossi stato in precedenza) a togliere scientemente la vita a qualcuno per proteggere la mia. Reduci, ma non nazisti in ritirata.

Quando ebbi la certezza che tutto il gruppo si era allontanato, chiamai i poliziotti e appoggiai le armi a terra. Mentre mi conducevano in questura, e ancora non sapevano chi fossi, mi accorsi che i poliziotti erano piuttosto sorpresi. Attenti, tenevano le armi puntate, ma si guardavano l’un l’altro perplessi. Non capivano perché sul mio viso trasparisse ogni tanto un sorriso. Non potevano sapere che era finito un orribile insopportabile incubo».

Forse non lo sapeva ancora neanche lui, ma quello è l’istante in cui Maurice Bignami ha risentito dopo anni il battito del suo cuore. Perché la mano può uccidere e il cuore non essere assassino. Poi basta assecondarlo. È lì, in questo nocciolo duro in cui non riusciamo a penetrare, che si annida la nostra sconfitta.

Tuo affezionatissimo zio
Berlicche

Foto Ansa

Tags: anni di piomboberliccheBrigate rossecomunismotempi giugno 2020
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