«Accendere un computer non basta a fare scuola»
Articolo tratto dal numero di settembre 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.
«La soluzione non è tenere chiuse le scuole ma, semmai, tenerle aperte 24 ore su 24 e immaginare come farle funzionare, nel rispetto delle regole dettate dall’emergenza sanitaria»: nessuno in Italia ha usato parole chiare quanto quelle scelte, scritte e inviate al ministro dell’Istruzione Lucia Azzolina da Rachele Furfaro.
Siamo ad aprile: ragazzi, insegnanti e genitori sono immersi nella didattica a distanza, qualcuno anticipa le misure allo studio del governo per la Fase 2. E Rachele Furfaro, quarant’anni nella scuola, prima come insegnante di ruolo nel pubblico poi fondatrice della scuola paritaria impresa sociale “Dalla Parte Dei Bambini”, dal 1986 modello di scuola attiva ispirata alle pratiche di Freinet e diventata nel tempo un network di scuole (nidi, infanzia, primaria, secondaria e scuole internazionali) disseminate in quattro quartieri diversi di Napoli, si rivolge al ministro: «Non è vero che l’intero paese ha fatto un balzo tecnologico e che tutti seguono l’educazione a distanza: moltissimi bambini, se avessero voce, le confermerebbero che non hanno avuto possibilità di accedere a quella formazione, che pure ogni scuola ha attivato, perché per accedervi non basta possedere gli strumenti tecnologici, c’è bisogno di avere una casa con uno spazio, un luogo in grado di garantire l’attenzione e la concentrazione che la nuova situazione richiede. E c’è bisogno, forse ancora di più, di adulti che si prendano cura di te».
Sono passati quattro mesi, i giornali hanno pubblicato e diffuso integralmente il testo della sua lettera, insieme ad altri suoi appelli, il ministro le ha risposto?
Mai. Nessuna risposta. In pochi hanno riflettuto veramente sulle conseguenze del baratro scavato dall’emergenza tra figli di famiglie benestanti e tutti gli altri: tutto è stato ridotto in modo molto semplicistico a una questione di dotazione tecnologica, lodando la trasformazione digitale, l’apprendimento a distanza “condiviso” tra scuole e famiglie. Evidentemente non sono mai stati a Napoli, nei Quartieri Spagnoli, e io credo nemmeno in tanta parte di periferie o scuole d’Italia frequentate da bambini in situazione di forte disagio sociale. Parlo di quartieri ad alta densità abitativa, inoccupazione, tassi di abbandono scolastico superiori al 30 per cento: tirate le somme oggi sappiamo che due milioni di studenti italiani non sono stati raggiunti dalla didattica a distanza, vogliamo fare finta che sia andato davvero tutto bene?
La vostra Fondazione ha distribuito alle famiglie pane, olio, caffè, materiale scolastico ma anche tablet e computer.
Sì, come tutti, ma il punto non è possedere gli strumenti perché le assicuro che è più facile che girino smartphone, tablet e consolle nelle famiglie più emarginate che in quelle della media borghesia. Il punto è un altro: nella nostra, come in moltissime altre periferie del paese, vivono intere famiglie in pochi metri quadrati, famiglie spesso in frantumi, poverissime che non hanno la possibilità emotiva, sociale e affettiva di farsi carico dei propri figli in situazioni “normali”, figuriamoci durante una pandemia. Abbiamo mamme tra i 15 e i 18 anni: a loro non serve il tablet quando ci portano i loro bambini, servono adulti che li aiutino, che li assistano nel loro cammino genitoriale. Molti madri e padri qui neanche aiutano i figli ad alzarsi dal letto, non hanno materialmente le forze per dedicarsi a loro, durante il lockdown li hanno lasciati dormire. Per questo ho scritto al ministro: noi con la didattica a distanza abbiamo perso il contatto con oltre l’80 per cento degli alunni, possiamo riaprire in sicurezza, lasciate tornare i ragazzi a scuola a maggio. Nessuna risposta. Eppure mai come in questo momento i luoghi di educazione avrebbero dovuto cambiare pelle, fare davvero educazione. Dire che “la scuola c’è” non significa “accendete il pc”.
Alla fine avete deciso di fare da soli e riaprire, gli unici di tutta Napoli.
Abbiamo usato gli strumenti offerti dal ministro Elena Bonetti nelle linee guida per l’apertura dei centri estivi. Il 50 per cento dei ragazzi ha lavorato all’interno delle scuole, l’altro 50 per cento all’esterno. Abbiamo alleggerito le strutture, organizzato il distanziamento, il triage e il rapporto insegnante-bambini: 1 a 5 nell’infanzia, 1 a 7 nella scuola primaria, 1 a 10 in quella secondaria di primo grado. Abbiamo scaglionato gli ingressi e gli orari, ospitando per tutta l’estate oltre 500 ragazzi, e non abbiamo registrato alcun contagio. A luglio abbiamo convocato architetti e ingegneri per progettare il rientro secondo le linee guida del ministero: le nostre cinque realtà (tra queste segnaliamo l’esperienza pilota del nido all’Ospedale pediatrico Pausilipon, ndr) si occupano di 1.300 bambini e ragazzi dai 2 ai 14 anni, che rientreranno a settembre utilizzando due ingressi diversi e differenziati per età e orari, abbiamo previsto a partire dalle 7.30 del mattino uno slot da 15 minuti per ogni gruppo. Idem all’uscita, che si svolgerà tra le 15.30 e le 17. Tutti i nostri 180 insegnanti verranno sottoposti a test sierologico e parteciperanno il 1° settembre a un collegio docenti straordinario – anche qui scaglionati in gruppi da 25 insegnanti ben distanziati ogni ora e mezza. Un addetto al Covid si occuperà della temperatura e ci sarà un presidio medico permanente. Non solo, abbiamo studiato un piano per far sì che il 30 per cento degli alunni a rotazione svolga attività fuori dalla struttura. Guardiamo al modello francese e tedesco: non possiamo lasciarci spaventare da ogni influenza ma possiamo circoscrivere il contagio ad ogni gruppetto di bambini e trovare spazi alternativi. Chi ha detto che una scuola sono quattro mura?
Per voi però la scuola non sono mai state quattro mura: Freinet è l’ideatore e il sostenitore appassionato di una scuola popolare che crea da sé lo spazio dell’educazione riempiendolo di esperienza del bambino.
Per noi lo spazio ha funzione educativa: a ciascun ambiente, la sua materia. Tutte le “scuole attive” italiane ed europee si basano su una formazione interdisciplinare e laboratoriale, incentrata sull’apprendimento e non sull’insegnamento e un metodo scientifico dinamico, strutturato su uscite, attività extracurricolari e campi scuola: in altre parole, per noi ogni spazio della natura e della cultura è uno spazio di apprendimento e la scuola deve poterlo usare. In questi anni nelle nostre piccole classi (massimo 18 alunni, organizzate con tavoli a spicchio che possono essere monoposto o componibili in cerchi più piccoli o in un unico cerchio per tutti), abbiamo aiutato i bambini ad alzare e spostare lo sguardo, insieme a loro abbiamo messo in moto progetti nei quartieri, coinvolgendo le famiglie, gli abitanti. Abbiamo costruito una comunità educante oltre le mura del monastero del Cinquecento abbandonato e riportato al suo splendore sei anni fa dalla Fondazione Foqus come esempio di rigenerazione urbana: si apprende in panetteria studiando i processi di lievitazione del pane, si apprende nelle vie del quartiere, si apprende nel verde, sui tetti, al mare, si apprende al museo, dove portiamo ogni classe almeno una volta a settimana e solo dopo aver lavorato a quel momento, averlo preparato. Non si fa teatro perché da noi nessuno recita. Ma tutti sono protagonisti del proprio crescere e al centro c’è l’esperienza e la formazione continua degli insegnanti, ma non solo: tanti sono i professionisti che ci aiutano a farci carico dei bambini e del rapporto con i genitori. Per questo ho lasciato la scuola dello Stato e per questo oggi più mai credo sia venuto il momento di finirla di concepire la scuola come uno spazio chiuso.
Qui si capisce il suo riferimento, nella lettera al ministro, a non delegare alla tecnologia ma a usarla per non perdere «l’indispensabile umanità della relazione educativa».
Educazione è aiutare i bambini a una ricerca di senso, non saranno le prevedibili e impraticabili prescrizioni degli esperti adulti a salvare la scuola, ma la domanda “Perché si educa?”. E a questa domanda si risponde con una relazione. Non con la reclusione forzata. Rimuoviamo ostacoli, ripeto, costruiamo comunità educanti che rendano la scuola del quartiere una possibilità e responsabilità di tutti, cerchiamo e attrezziamo spazi nuovi perché ogni spazio diventi uno spazio di educazione. Non un magazzino di banchi presidiato dai termometri. La scuola sia aperta, davvero aperta.
Foto didattica a distanza: Ansa
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