«La terra promessa dell’utero in affitto, come è noto, è l’India, dove a prezzi stracciati coppie (soprattutto di omosessuali maschi) e single occidentali possono noleggiare “madri surrogate”, sempre poverissime e spesso abbandonate al loro destino se qualcosa, come può accadere, va storto. Il paese ha ora deciso, però, di introdurre regole più restrittive». Scrive così il Foglio sulla nuova legislazione approvata dall’India per rendere più difficile lo sfruttamento delle donne indiane.
SCHIAVITÙ POSTMODERNA. Solo coppie eterosessuali (i matrimoni gay non sono riconosciuti in India) sposate da almeno due anni potranno ricorrere alla maternità surrogata, «vale a dire alla cosa più simile alla schiavitù che il mondo postmoderno abbia prodotto», e solo se anche nel paese di origine della coppia la pratica è considerata legale. I richiedenti dovranno dotarsi di un visto per ragioni mediche, e non turistiche, ci vorranno poi documenti rilasciati dall’ambasciata i quali attestino che il paese da cui proviene la coppia accetterà in ogni caso come loro figlio biologico il bambino partorito.
PROBLEMI GIURIDICI. Scrive ancora il Foglio: «Le nuove limitazioni sull’utero in affitto – grande business per le cliniche indiane, finora in condizioni di deregulation – nascono da scandali e contenziosi legati all’impossibilità, in molti casi, di far digerire alle autorità occidentali la finzione sulla quale si basa l’intera pratica della maternità surrogata. Alcune nazioni, infatti (Germania, Irlanda, Norvegia) non riconoscono come genitori quelli che, effettivamente, sono solo committenti, a volte senza nessun legame biologico con i neonati».