«I cittadini italiani devono stare all’erta, si devono guardare intorno e se hanno qualcosa da segnalare lo dicano subito alle autorità»: così l’onorevole Alfano, al termine della riunione dei ministri dell’Interno tenuta a Parigi dopo la grande manifestazione di domenica 11 dicembre. Da cittadino al responsabile del Viminale: certo, mi guarderò intorno e segnalerò, ma – in un contesto nel quale la prevenzione in un singolo paese non esaurisce il quadro, eppure fa la sua parte – in che modo lo Stato italiano si sta guardando intorno?
L’Italia non parte da zero: contro il terrorismo ha una legislazione fra le più complete e avanzate, che ha bisogno di integrazioni solo sul fronte di un più stretto coordinamento giudiziario, e ha significative professionalità. Le mancano in questo momento gli investimenti; bisogna scegliere: o si contrastano i tagliagole ultrafondamentalisti decidendo di spendere o si prosegue con la spending review.
È però utile sapere che, in ossequio alla seconda, sono chiusi o in chiusura numerosi uffici della polizia postale, ponendo a rischio il monitoraggio web in un momento in cui reclutamento e input per attentati attraversano internet. Non solo: analogo ridimensionamento c’è per i presidi di frontiera e sui mezzi di trasporto; inoltre sono ridotti al lumicino i corsi di lingua araba per poliziotti e carabinieri: e come si fa a capire quel che si dice nei colloqui intercettati? Per di più è stata ridimensionata la formazione mirata, quando la corretta conoscenza della fisionomia dell’aggressione è una delle componenti del successo investigativo; è più limitata l’attività di osservazione, che richiede tempi lunghi, quindi straordinari e missioni. Continuare a tagliare sulla sicurezza impedisce allo Stato di guardarsi intorno.
I canali del confronto
Sul presupposto che questo terrorismo si sconfigge grazie pure a un collegamento organico con le comunità islamiche presenti in Italia che hanno tendenze non ultrafondamentaliste, il cittadino si chiede: c’è qualcuno che lavora in questa direzione? Evitando da un lato il buonismo autocolpevolizzante di chi sostiene che il problema siamo noi e che l’islam non c’entra nulla e dall’altro l’estremismo di chi sostiene che tutti i musulmani sono terroristi?
Fra il 2010 e il 2011 proprio al Viminale si era avviato il lavoro del Comitato per l’islam italiano: composto per metà da fedeli musulmani provenienti da comunità differenti presenti in Italia e per metà da studiosi. In un biennio di lavori individuò in modo concorde buone prassi, sulle regole per i luoghi di culto, sullo statuto delle associazioni islamiche, sulla trasparenza nella predicazione degli imam, sulla marginalizzazione degli esagitati, sul diritto familiare e sul burqa. Chi è venuto dopo non ha proseguito l’esperienza: che andrebbe ripresa per stabilire canali di confronto seri, non all’insegna delle generiche dichiarazioni di buone intenzioni, ma per definire di volta in volta che fare a fronte di nodi critici concreti.
E poi c’è l’oltreconfine. Nelle stesse ore in cui il ministro Alfano esortava gli italiani a “segnalare”, il ministro Gentiloni ha adoperato parole nette sul fronte estero: è illusorio e pericoloso, ha detto, fronteggiare l’Isis senza intervenire sul posto con una coalizione ampia, la minaccia va combattuta, ed è necessario passare ai fatti, anche nello scenario della Libia. È nell’interesse di tutti che ciò avvenga realmente, e la chiarezza dei concetti fa immaginare che ci sia qualcosa in più del mero annuncio: colpire le basi dell’Isis e di al Qaeda significa indebolirne la capacità di suggestione e di propaganda e di semina del terrore. Qualche bandiera nera ammainata corrisponde a qualche luogo in meno di addestramento alla morte.