Contrastare il terrorismo è sempre stato un lavoro complesso; ma oggi le minacce dello Stato islamico e quelle concorrenti delle articolazioni di al Qaeda esigono livelli superiori di attenzione e di raccordo fra scenari differenti.
Il fronte più significativo è certamente quello internazionale, col necessario coinvolgimento di nazioni a maggioranza islamica; altrettanto pesa l’impegno di ciascuno stato al proprio interno. L’Italia è da tempo attrezzata con le leggi e con un qualificato sistema di sicurezza; nel 2001, dopo l’11 settembre, ma soprattutto nel 2005, dopo gli attentanti di Londra e di Sharm el Sheik, essa ha adeguato le norme di prevenzione e di repressione, individuando i principali comportamenti a rischio e prevedendo per ciascuno di essi strumenti di indagine e sanzioni non lievi. Ha riconfigurato il delitto di associazione terroristica, ha delineato i profili dell’arruolamento e dell’addestramento a scopi di terrorismo, ha aumentato la pena per l’apologia e l’istigazione, ha fornito mezzi penetranti alle forze di polizia e ai servizi.
Ciò di cui oggi vi è necessità nei nostri confini non sono radicali cambiamenti di norme, ma un’azione di governo della sicurezza che elimini qualche lacuna sul piano organizzativo e dia agli operatori ulteriori indispensabili strumenti culturali e materiali.
Qualche esempio: da oltre vent’anni la criminalità mafiosa è repressa grazie anche a un coordinamento delle indagini che fa perno sulle Direzioni distrettuali antimafia (il cui territorio di competenza è la corte di appello, più ampio di quello dei tribunali) e della Direzione nazionale antimafia. Non esiste qualcosa di simile per il terrorismo: istituire una procura nazionale antiterrorismo, con sedi territoriali distrettuali, ovvero una sezione ad hoc nell’attuale sistema delle procure antimafia, otterrebbe il positivo duplice risultato di indagini meno frammentate e di professionalità più elevate; e se alla specializzazione degli inquirenti si facesse corrispondere la specializzazione dei giudicanti, con la costituzione di sezioni dedicate a queste vicende criminali, si eviterebbero fraintendimenti ed equivoci grazie alla più attenta conoscenza della realtà di fatto sottoposta al giudizio.
Si eviterebbe, per esempio, di sostenere, come è accaduto in sentenze pronunciate in Italia, che chi faceva attentati in Iraq non era terrorista ma “resistente”, o che non vi fosse la prova della natura terroristica di organizzazioni invece iscritte nelle black list dell’Onu o dell’Ue, come il Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento.
Insegnare l’arabo agli agenti
A proposito dei mezzi, la conoscenza della lingua araba va estesa fra i poliziotti e i carabinieri impegnati su questo fronte, non potendosi fare affidamento esclusivo sugli interpreti: ciò sia perché questi ultimi sono sempre di meno e sempre più intimiditi, sia perché la sensibilità del professionista della sicurezza gestisce l’informazione ricavata da una intercettazione o da un sermone inserendola in un quadro di insieme che il semplice interprete non ha. Il tutto senza trascurare di mantenere i canali di collegamento con comunità islamiche presenti in Italia e non connotate da tendenze ultrafondamentaliste, spesso alla radice della “vocazione” terroristica: un lavoro in tal senso era iniziato con profitto qualche anno fa, ma non è stato proseguito.
Ascoltando il ministro dell’Interno nell’informativa resa alle Camere e leggendo un suo intervento sul Corriere, sorprende che non abbia prospettato nessuno di questi aspetti. La stima che l’Italia ha maturato contro il terrorismo va alimentata con nuovi positivi risultati: che però non sono automatici. Costano attenzione e risorse finanziarie e umane, non surrogabili né da slogan né da meri annunci.