«Se ho aspettato tutta la vita di morire, perché non dovrei aspettare tutta la morte per tornare a vivere?», è una delle domande poste da un italiano che ha sottoscritto un contratto di ibernazione con un’agenzia americana. La settimana scorsa la Bbc ha dato notizia che un giudice dell’Alta Corte ha acconsentito alla richiesta di una quattordicenne malata terminale di potere essere ibernata una volta defunta.
Nel mondo sono qualche centinaio le persone che hanno pagato grandi cifre per essere rinchiuse in bidoni sottozero così da essere in un futuro scongelate, curate, “rivitalizzate”. Ad oggi non v’è alcuna tecnica che possa garantirlo, ma in futuro… chissà.
Vaneggiamenti di facoltosi buontemponi che hanno letto troppi romanzi distopici? Sicuramente, ma non solo. Nel 2013 Time mise in copertina il titolo “Google può sconfiggere la morte?”, raccontando come i guru della Silicon Valley siano ormai certi che la morte possa essere sconfitta e derubricata a banale malattia curabile con algoritmi, pillole, scongelatori.
Una questione resta, tuttavia, irrisolta. Se la tecnologia può impancarsi a nuovo Cristo che chiama Lazzaro a uscire dalla tomba, non può promettere l’eternità (una vita nuova), ma solo l’immortalità (una vita più lunga). Ma a che serve rimandare la morte se non si risponde al grande interrogativo che essa inevitabilmente suscita nei vivi? Che non è solo “cosa c’è dopo?”, ma soprattutto “per cosa vale la pena vivere qui ed ora?”. Non basterà congelare il cadavere per congelare la domanda.
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