Usa, così le città dell'”arretrato” sud danno lezioni di sviluppo alle impoverite metropoli del “progredito” nord
Dal collasso del sistema finanziario l’America ripropone a ciclo continuo il film drammatico delle “shrinking cities”, le città che si restringono sotto i colpi della crisi, tradite da modelli produttivi insostenibili e spesso costrette all’opzione estrema della bancarotta, preludio di scenari foschi fatti di ruderi urbani e anarchia. Detroit, un tempo la quarta città più popolosa degli Stati Uniti, è il simbolo potente di una tendenza generale considerata in qualche modo ineluttabile. La decisione del tribunale di mettere mano ai fondi pensione degli impiegati pubblici – nonostante che siano protetti dalla costituzione dello Stato e che il “chapter 9”, la legge sulla bancarotta municipale, non lo preveda – è un segnale che fa tremare non soltanto la spopolata capitale dei motori, ma tutte le città con i conti in rosso. E non sono poche.
A questo scenario si oppone una controstoria urbana fatta di città che catalizzano la “wanderlust” che è inscritta nel dna degli americani, bacini suburbani in espansione dove il costo della vita è abbordabile e il mercato del lavoro ancora attivo, favorito da regimi fiscali leggerissimi – potere della federazione – e da scelte politiche tutte orientate alla crescita. È un modello che si muove in senso opposto a quello suggerito dalla tradizione: per decenni si è pensato che lo sviluppo americano sarebbe stato orientato prevalentemente a nord e comunque aggrappato alle floride coste oceaniche, mentre nell’era della stagnazione il lato luminoso delle “shrinking cities” va cercato a sud, in quella “Sun Belt” che nell’immaginario popolare è la sentina dell’arretratezza, antiquato regno dei “redneck” in salopette di jeans e cappello di paglia.
Un gruppo di economisti idealmente guidato da Edward Glaeser, illustre professore di Harvard, sostiene che il destino ultimo dello sviluppo urbano in America è ancora legato ai centri urbani ad altissima densità, inimitabili produttori di servizi e capitale umano. La scuola opposta è quella dell’urbanista Joel Kotkin, che dall’era pre-crisi preconizza la rinascita del sud “red”, cioè repubblicano, e ora è confortato dai dati sui flussi migratori: gli americani si spostano in Texas, che oggi non è soltanto sinonimo di petrolio e tecnologia, ma anche di arte, servizi, università d’eccellenza, centri di ricerca; cercano le condizioni favorevoli della North Carolina, ripiegano nel “paradiso fiscale” del Kansas, vengono attratti da Oklahoma e Tennessee, improbabili centri di gravità demografica. Lo spostamento verso la “Sun Belt” s’accorda anche con la tesi presentata dall’economista Tyler Cowen nel suo recente Average is Over: in una società in cui la classe media si sta erodendo, con un aumento della forbice fra ricchi e poveri, gli americani cercano quella vita a basso costo che soltanto i centri suburbani sono in grado di offrire. Ecco alcuni esempi.
Austin, Texas
Dal 2011 a oggi la popolazione della capitale texana è aumentata del 3 per cento, un record per le città che contano oltre un milione di abitanti. Guida anche la classifica per la presenza di laureati fra i 25 e i 34 anni, dato direttamente collegato a un mercato del lavoro che si è espanso del 28 per cento negli ultimi dieci anni. La media nazionale è attorno al 5 per cento. Si parla addirittura di “Austin envy”, l’invida di Austin, laboratorio di arte, start up tecnologiche, cultura hipster e servizi che attira talenti da tutta l’America.
Il sistema è stato lubrificato dalla crescita della University of Texas, una della università pubbliche più prestigiose del paese che ammette ogni anno oltre 60 mila studenti selezionati. Uno studio di MarketWatch dice che il rapporto fra l’investimento fatto per le rette universitarie e lo stipendio dopo la laurea è il migliore dopo quello offerto dal Georgia Tech. Altra università in uno stato del sud. Certo, a Austin non ci sono le scuole d’eccellenza del New England, che sfornano cervelli competitivi a livello mondiale, ma il punto di forza del Texas è lo sviluppo diffuso, non la coltivazione di un élite. Lo stipendio medio è di 62 mila dollari l’anno, lontano in termini assoluti dai fasti della Silicon Valley, per fare un paragone, ma più vantaggioso in rapporto al costo della vita. E senza bisogno di una laurea in ingegneria informatica.
In tutte le classifiche sulle città più business-friendly questo paradiso dell’imprenditoria è al primo posto. Austin è la realizzazione di un progetto di vita più stabile, tanto che anche i rivali della California si trovano a migrare in Texas, trovando una cultura sorprendentemente simile a quella in cui sono cresciuti. Uno dei motti della città è “keep Austin weird”, manteniamo la città “strana”, coltiviamo lo spirito sghembo del suo popolo che è perfettamente rappresentato dal SXSW, grandioso festival nato attorno alla musica e che nel tempo si è esteso alla tecnologia, alle tendenze, all’arte in tutte le sue forme. Un’evoluzione che riflette quella della città.
Raleigh, North Carolina
Sommando la crescita demografica di tutte le 52 città americane con oltre un milione di abitanti si arriva a un incremento del 12 per cento nell’ultimo decennio. Raleigh, capitale della North Carolina, è cresciuta del 48 per cento e il trend non accenna a diminuire. La forza delle città come questa – un angolo dell’entroterra americano come tanti – non va cercata nelle potenzialità turistiche o nelle attrattive culturali, piuttosto scarse nella zona. A non mancare, invece, sono le case a basso costo, i posti di lavoro, la sicurezza e l’accesso a un buon sistema educativo, con punte di eccellenza nell’area circostante come Duke University e University of North Carolina a Chapel Hill.
Raleigh, che oggi conta quasi 1,2 milioni di abitanti, si è sviluppata in orizzontale, non secondo lo schema tradizionale del centro produttivo costruito in verticale e l’hinterland fatto di villette e condomini. A Raleigh le case indipendenti dominano di gran lunga sui palazzi, più che altro dedicati ai servizi governativi, e lo scorso anno il numero delle case indipendenti acquistate ha superato del doppio quello degli appartamenti. La città è l’esemplificazione di un concetto che i dati del Census Bureau – l’istituto di statistica federale – spiegano chiaramente: gli americani si spostano verso aree urbane abbastanza economiche da permettere loro qualche piccolo investimento, l’ultima speranza di ottenere la mobilità sociale che è parte integrante del sogno americano. Naturalmente cercano una qualità della vita migliore di quella che hanno lasciato, e la vita suburbana è la risposta più economica al bisogno. Attorno a questo modello tendono, nel tempo, a svilupparsi scuole più competitive e università. La città, poi, può contare su un sistema politico particolarmente stabile, controllato dai “democratici conservatori”, una specie moderata che è quasi mitologica nell’ambito della politica nazionale.
Nashville, Tennessee
La più grande comunità curda degli Stati Uniti è in questa città nota per le inclinazioni musicali folk e country. Ci sono bengalesi, cambogiani, vietnamiti, una folta rappresentanza di bantù, pashtun e pachistani, immigrati del Laos e comunità che rappresentano tutto l’Estremo Oriente. C’è anche il Partenone. Per quella riproduzione in scala commissionata per un’esposizione universale la chiamano “l’Atene del sud”, anche se gli abitanti del luogo sostengono che in realtà il soprannome si debba alla grande concentrazione di scuole e università.
Se però negli ultimi dieci anni Nashville ha guidato la classifica degli stranieri immigrati e non quella dei premi Nobel sfornati dalle sue scuole è chiaro che non è esattamente la cultura il punto di forza di questo agglomerato urbano da 1,7 milioni di abitanti. Un mercato del lavoro particolarmente flessibile e diversificato – si va dalla manifattura, vocazione originaria della città, al settore meccanico fino all’industria musicale – ha attirato un flusso continuo di lavoratori poco qualificati. Il tasso di disoccupazione è attorno al 6 per cento, sensibilmente al di sotto della media nazionale, e questo spiega l’incremento di popolazione degli ultimi anni. Secondo l’agenzia Thumbtack, Nashville è al sesto posto fra le città americane più ospitali per gli imprenditori: poca burocrazia, pressione fiscale contenuta, immobili abbordabili e costo della vita più che contenuto. Per questo anni fa la Nissan ha deciso di spostare da Los Angeles a Nashville il suo quartier generale americano, e oggi è uno dei più importanti datori di lavoro dell’area.
Oklahoma City, Oklahoma
Il tasso di disoccupazione al 5,5 per cento è un sintomo chiaro dello stato di salute di questa città che negli anni Ottanta è arrivata sull’orlo della bancarotta. La rivista Forbes l’ha definita «la città a prova di recessione», per via della diversificazione economica che l’ha resa flessibile e capace di reagire alla crisi. A differenza di molte aree più ricche e cool, il mercato immobiliare dell’Oklahoma ha retto l’urto della crisi, dando stabilità alle famiglie e alle finanze pubbliche. Ora il budget della città segna un surplus da 8 milioni di dollari. Si tratta di uno strano caso in cui uno stato originariamente legato esclusivamente al settore dell’energia ha emancipato la sua struttura economica dall’estrazione degli idrocarburi. Oklahoma City è ancora la sede di Cheasepeake e Devon, colossi dell’energia americana, ma la spina dorsale della produzione è legata ai servizi tecnologici.
Nel tentativo di dare a questo agglomerato di quartieri un’anima urbana hanno costruito il Bricktown, quartiere centrale che ospita il meglio della vita culturale e ricreativa dell’Oklahoma, dai musei di arte contemporanea ai centri congressi passando per i ristoranti internazionali. Non sarà San Francisco, certo, ma qui il sogno americano può ancora diventare realtà.
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