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Un momento di luce a Yaoundé

Storia di padre Maurizio Bezzi e della sua comunità in Camerun, rischiarata inaspettatamente dai sorrisi e dall’entusiasmo di una grande missionaria piccolissima. Così con la sua vita troppo breve Pierretta ha insegnato la fede anche agli adulti

Rodolfo Casadei
21/12/2019 - 1:00
Esteri
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centro edimar camerun

Articolo tratto dal numero di dicembre di Tempi.

Quanti cuori può contenere un cuore? Domanda stupida tanto per l’uomo carnale che per quello spirituale. Il primo risponderà che un cuore può contenere solo se stesso, il secondo risponderà che può contenerne un numero potenzialmente infinito. Come scriveva Karol Wojtyla quando era ancora arcivescovo di Cracovia, «lo spirito umano è dimora, tabernacolo, luogo di incontro. […] Costituisce “un luogo”, “una sostanza” del tutto particolare, dissimile dal corpo e dalla materia, che essendo determinata e dimensionale non può essere soggetto di quella dimora di persona in persona – Dio nell’uomo – di cui parla Cristo. Tale dimorare – inabitare – prevede una dimensione esistenziale completamente diversa da qualsiasi corpo […]: la natura spirituale, infatti, possiede come proprietà l’apertura alla compenetrazione, attraverso le proprie energie conoscitive e, soprattutto, con la capacità di amare».

Il cuore di padre Maurizio Bezzi, quasi trent’anni di missione fra i ragazzi di strada di Yaoundé capitale del Camerun, è abitabile. Lo abitano almeno 5 mila altri cuori, tanti quanti sono quelli dei bambini e adolescenti nelle cui vite è entrato – e che sono entrati nella sua vita – andando a incontrarli fuori dalla stazione ferroviaria dove esercitano come facchini abusivi, fra le bancarelle dei mercati di quartiere in cerca di avanzi ed elemosine, fuori dai locali notturni attirati dalle luci e dai suoni delle serate danzanti, nella polvere rossa delle strade sterrate o dove l’asfalto si è completamente sgretolato causa decenni di incuria, nei “Texas”, baracche e rifugi di fortuna per i senzatetto che hanno preso il nome dagli agglomerati di stamberghe dei film western e che ora si è esteso a interi quartieri malfamati delle periferie della capitale, i quali lo ostentano con l’insolenza di chi intende scoraggiare i ficcanaso. Sempre respinti, sempre guardati con sospetto, falsamente o giustamente accusati di furtarelli e altre infrazioni; sempre in guerra fra di loro, vittime e carnefici nello stesso tempo, coperti di piaghe infette che si infliggono l’un l’altro quando la vita di strada non basta a fiaccarne la salute.

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Chi accompagnava padre Maurizio nelle sue visite perlopiù notturne ai manipoli degli mboko (il vocabolo della lingua locale con cui sono chiamati i ragazzi di strada), fra odori di feci e poliziotti cattivi che strattonavano i malcapitati, sguardi smarriti e occhiate smaliziate, tornava a casa e sentiva la chiamata. La chiamata a essere il padre o la madre di quei reietti. Molti – bianchi e neri, laici e missionari – tornavano poi ai loro affari, alcuni decidevano di coinvolgersi: come volontari, educatori, benefattori. Fra loro Mireille Yoga, laureata e giovane sposa, che la prima sera della prima uscita insieme a padre Maurizio si vide puntare un coltello contro la pancia da un ragazzo che riuscì poi, superando la paura, ad ammansire.

Oggi è lei che conduce il Centro Edimar-Princesse Grace, iniziato da padre Bezzi nel 2002 come punto di riferimento diurno (educativo, affettivo, igienico) per i ragazzi incontrati sulla strada. Lo conduce da sola – ma non senza continui scambi via Whatsapp – perché da un anno lui è spiaggiato in Italia per motivi di salute. Motore al minimo per recuperare le forze, il contrario di tutta una vita spesa in incontri e rapporti cuciti col filo della fede in Cristo, ma per niente demoralizzato: «Non mi sento affatto solo», dice a Tempi. «C’è sempre un angelo custode con me. Si chiama Pierretta». Proprio Pierretta, all’italiana. Aveva cinque anni quando una malaria cerebrale non diagnosticata per tempo se l’è portata via all’improvviso. Una bambina indimenticabile.

Quattro anni in prigione

Padre Maurizio è un sacerdote, missionario del Pime, per di più viene dalla bergamasca, terra di gente dal forte senso pratico, capace di una santità senza fronzoli, intessuta di concretezza e di amore tosto: proprio tutto quel che serve, e che difatti è servito, coi ragazzi di strada. Sa bene che i bambini che muoiono non si trasformano in angeli, come tanti hanno l’abitudine di dire davanti alle morti precoci. Sa pure che molti ricorrono all’immagine del bambino trasfigurato in angelo per placare la propria sofferenza o il proprio inconfessato senso di colpa, o per non dover mettere in discussione l’immagine del Dio sempre buono e provvidente, per evitare di doverLo processare per infanticidio, come fa il personaggio di Ivan Karamazov nel romanzo di Fëdor Dostoevskij. Ma con Pierretta è un’altra storia.

Quando il 29 dicembre di tre anni fa è stata strappata all’amore di nonna, mamma e decine di amici, vicini, parenti nella carne e in Cristo che si era acquistati nei brevi cinque anni della sua vita, gli anziani del quartiere hanno commentato con rassegnazione: «Bambini come questa non restano a lungo fra di noi. Sono una luce tanto intensa che non può durare in questo mondo: ci è data solo per un prezioso momento». Da dove nasce questa remissiva sapienza che mette a disagio? Sospesi fra il mondo degli spiriti e il cristianesimo che invita a non avere paura, gli africani toccati dalla brevissima vita di Pierretta non hanno avuto esitazioni a identificarsi con le parole del libro della Sapienza che talvolta vengono pronunciate durante le esequie cattoliche: «Il giusto, anche se muore prematuramente, troverà riposo. […] Divenuto caro a Dio, fu amato da lui e poiché viveva fra peccatori, fu trasferito. Fu rapito, perché la malizia non ne mutasse i sentimenti o l’inganno non ne traviasse l’animo» (Sapienza 4, 7 e 10-11).

Questo però è un brano che normalmente si legge nei funerali degli adulti, non in quelli dei bambini. Cosa li ha portati a riconoscere in lei la figura del giusto che Dio prende con sé perché non si corrompa la sua purezza e ad aggiungere un pensiero che nella Bibbia non c’è, cioè che il mondo non merita di tenere presso di sé un dono così grande? «Pierretta arrivava, ti sorrideva, ti chiedeva di seguirla e ti portava a pregare davanti a una statua della Madonna», racconta padre Maurizio. «Lo faceva quando era a casa e qualcuno arrivava in visita e lo faceva a scuola dove aveva cominciato a frequentare la prima elementare. C’era una grotta di Lourdes subito fuori dal complesso scolastico, e lei convinceva adulti e bambini ad accompagnarla lì e recitare con lei le Ave Maria. Quando mi hanno chiamato per il rito funebre, prima di chiudere il feretro e mandarlo al villaggio d’origine della madre e della nonna per il funerale vero e proprio, la preghiera si è trasformata in un momento di testimonianze. Le persone prendevano la parola e con stupore raccontavano come avevano scoperto il vero significato della preghiera grazie a Pierretta e all’ingenuità calorosa con cui li invitava a pregare insieme a lei».

Pierretta aveva rischiato di non venire nemmeno al mondo. Il nonno aveva cercato di ammazzare la nonna ma era rimasto ucciso lui. L’aveva aggredita mentre teneva in braccio la loro figlia neonata, e per difendersi la donna aveva afferrato un coltello che aveva ferito a morte il giovanotto. Ma la giustizia umana ha i suoi tempi, e quelle che sarebbero state la nonna e la mamma di Pierretta finirono in carcere, nella Prigione centrale di Yaoundé. Un luogo che padre Maurizio ha conosciuto molto bene, essendo stato a lungo il cappellano della sezione minori del carcere, dove trovavano spesso alloggio alcuni dei ragazzi che aveva avvicinato sulla strada.

Lui però si prendeva cura un po’ di tutti i numerosissimi detenuti, e così aveva conosciuto anche quella che sarebbe diventata la nonna di Pierretta (la chiameremo Alice), confinata nel reparto femminile col suo bebé. Marguerite (così chiameremo la futura mamma di Pierretta) era presto diventata la mascotte della sezione, tutte le detenute giocavano e scherzavano con lei. Una suora italiana di tanto in tanto la portava a passeggio fuori, a farle scoprire il mondo. Lei e la madre trascorsero quattro anni fra le celle e i cortili della prigione prima che il processo stabilisse che si trattava di un caso di legittima difesa.

centro edimar camerun

«Portami ancora in vacanza!»

Diciassette anni aveva Alice quando nacque Marguerite, diciassette anni aveva Marguerite quando nacque Pierretta. In quest’ultimo caso nessuno restò accoltellato, anche perché il padre continuò a vivere per conto suo, mantenendo un blando legame sentimentale con la figlia e la madre di lei. Pierretta, figlia di ragazza madre, fu cresciuta soprattutto dalla nonna. Che nel frattempo aveva preso a frequentare la comunità di Comunione e Liberazione di Yaoundé, iniziata proprio da padre Maurizio. E non c’è comunità di Cl che possa dirsi tale senza le annuali vacanze comunitarie, nel caso camerunese spesso balneari sull’Oceano Atlantico nella piccola perla di Kribi. Pierretta non se n’è persa una, nemmeno quando ancora succhiava il biberon.

«Quando si tornava a casa, a tutti quelli che incontrava, grandi e piccini, raccontava con entusiasmo le vacanze della comunità: “Abbiamo giocato insieme! Abbiamo mangiato insieme! Siamo andati a Messa tutti i giorni!”. Era diventata la più grande missionaria della comunità. Quando sono andato a fare visita alla sua famiglia il pomeriggio di Natale, mi è corsa in braccio per farsi fare i grattini: ne andava pazza. Quando li ho salutati per andarmene, con gli occhietti mi diceva: “Portami ancora in vacanza con tutti gli altri!”. Sono tornato il giorno 27 quando già stava male, e li ho consigliati di farla visitare all’ambulatorio. Non è bastato nemmeno ricoverarla in ospedale, il giorno 29 ci ha lasciati».

Per tutta la gente del quartiere dove abitava, per tutti gli insegnanti e i bambini della scuola elementare che aveva da poco iniziato, per tutta la comunità di Cl «è stato un vero shock», ricorda il missionario. «Pierretta era un magnete che attirava l’attenzione di tutti con naturalezza e senza recare noia: gli altri bambini la seguivano qualunque cosa facesse, gli adulti la stavano ad ascoltare meravigliati e incrociavano domande e risposte con lei con la massima spontaneità. Nessuna festa dei bambini del quartiere cominciava se prima non era arrivata lei».

«Il nostro angelo custode»

C’è da aggiungere un particolare non secondario che riguarda il contesto. In Africa la malattia è ancora considerata, a livello popolare, il prodotto di cause soprannaturali manipolate da esseri umani, soprattutto quando colpisce giovani e bambini. Dietro a una malattia che stronca in poco tempo la vita di un bambino si intravede la mano di uno stregone che, per invidia o per impadronirsi dell’energia vitale altrui, o su richiesta di qualcuno che vuole male alla tal persona o alla sua famiglia, ha scatenato spiriti malvagi contro di lei. Sospetti e maldicenze sono uno strascico comune anche nell’Africa del XXI secolo, all’indomani dei funerali di una giovane vita falciata all’improvviso. Niente di tutto questo è accaduto alla morte di Pierretta. Solo testimonianze di quello che le persone dicevano di avere ricevuto attraverso di lei, il ricordo dei suoi modi gioiosi e coinvolgenti, e quella convinzione da tutti ripetuta con le medesime parole: «È diventata il nostro angelo custode». «Il mio angelo custode, quello che mi sta vicino nella malattia, quello che mi protegge», sorride padre Maurizio.

@RodolfoCasadei

Tags: camerunmaurizio bezziYaoundé
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