Mio caro Malacoda, «non sappia la destra quel che fa la sinistra» è stata una di quelle espressioni felici del nostro Nemico con la quale ha indotto alla generosità, alla carità, al dare disinteressato che ha purtroppo salvato molte anime altrimenti dannate. C’è una per noi insondabile misura nella bilancia della giustizia, per cui un solo gesto di vera donazione riscatta anni di avarizia della mano e del cuore.
Già il cuore. Una volta ho sentito un’intervista televisiva a un ergastolano con quattro omicidi accertati sulle spalle. Dopo vent’anni di galera si dichiarava cambiato: «È stato il pensiero di mia figlia, nata dopo il mio arresto». Al giornalista che gli chiedeva come potesse sperare di convincere i telespettatori rispose: «In fondo non mi interessa convincerli, la gente spesso non sa che cosa può succedere nel cuore di un uomo».
Ma non è per lagnarmi con te della difficoltà di una nostra presa definitiva sul cuore degli uomini che ti ho scritto, quanto piuttosto per parlarti di galera. E di amnistia. E di indulto.
E torniamo quindi alla destra che non sa quello che fa la sinistra. Non lo sa perché è innanzitutto la sinistra che non sa più che cosa fare. La clemenza a sinistra non si porta più, o meglio, si porta solo se è tagliata su misura. Pensa se in Gran Bretagna un provvedimento di clemenza recitasse: “Per tutti i detenuti tranne che per Jeremy Forrest” (non sai chi è? È l’insegnante fuggito con l’allieva minorenne a Parigi e ora condannato a più di cinque anni), giustamente verrebbero coperti di ridicolo. In Italia, invece, il ridicolo non è più un ostacolo: alla sinistra l’amnistia e l’indulto vanno bene se non riguardano un unico condannato, Silvio Berlusconi. Ma il tuo capolavoro, nipote, non è nel far sostenere queste tesi con assoluto sprezzo del diritto e della logica, ma nell’aver anestetizzato l’opinione pubblica tanto da non registrare reazioni.
Però la sinistra ora non sa neanche che cosa fa la sinistra. Per il futuro segretario del Pd, Matteo Renzi, i provvedimenti di clemenza che il Parlamento sembra voler discutere sono «un gigantesco errore». Di più, un esempio «diseducativo»: «Come facciamo a spiegare ai ragazzi il valore della legalità, se poi ogni sei anni quando abbiamo le carceri piene buttiamo fuori qualcuno», dice. (Bello e rispettoso quel “buttiamo fuori”).
Il sindaco di Firenze vede in questo un ossequio non dovuto al capo dello Stato. E ne contesta il ragionamento. Giorgio Napolitano dice: la situazione delle carceri è disumana, quindi ingiusta, provvedimenti eccezionali come indulto e amnistia possono essere propedeutici a una riforma della giustizia che non torni a riempirle. Renzi ribatte: prima di svuotarle bisogna cambiare alcune leggi che non funzionano, «la Bossi-Fini e la Fini-Giovanardi. Bastano i cognomi per capire perché».
A parte l’involontario razzismo e il cripto-lombrosismo sui cognomi, è la logica renziana che mi sfugge. Napolitano dice: saniamo una situazione ingiusta, svuotiamo le carceri e troviamo il modo per non riempirle di nuovo. Renzi dice: perpetuiamo un’ingiustizia, continuiamo a tenerle piene, ad applicare le leggi che (a suo dire) le riempiono finché non le avremo cambiate.
Ma in fondo è bene così, se anche il nuovo cede al populismo, sarà più chiaro che non c’è ideale per il quale valga la pena battersi. E allora perché far uscire uno di galera?
Tuo affezionatissimo zio Berlicche