
Tutti ricattano tutti nel triangolo di odio e di amore tra Turchia, Russia e Occidente. All’indomani dell’interlocutorio summit di Sochi del 29 settembre scorso, dove Putin ed Erdogan si sono incontrati faccia a faccia per la prima volta dall’inizio della pandemia da Covid e dove gli occidentali rappresentavano il convitato di pietra, le dichiarazioni ottimistiche e i sorrisi di circostanza non bastano più a occultare la sostanza della questione.
L’incontro Russia-Turchia
Il presidente turco ha voluto incontrare il presidente russo perché teme che costui voglia spalleggiare una nuova offensiva delle forze governative siriane contro la roccaforte islamista dell’Idlib, evento che potrebbe innescare un travaso di tre milioni di profughi dalla Siria alla Turchia, dove ce ne sono già quattro milioni. Il presidente russo ha accettato di incontrare il presidente turco per allargare il cuneo fra la Turchia e la Nato, annunciando nuovi accordi economici e militari fra i due paesi, ma anche per manifestargli la sua irritazione per la crescente cooperazione militare fra Ankara e l’Ucraina.
Erdogan gli ha verosimilmente risposto che se Mosca vuole che la Turchia sposti lontano da Kiev l’asse della sua politica nel Mar Nero, deve impegnarsi a sua volta a trattare da terroristi, in terra siriana, non solo Hayat Tahrir al-Sham (filiale locale di al Qaeda) e islamisti vari, ma anche le Ypg curde (Unità di protezione popolare) che rappresentano la spina dorsale delle Fds (Forze democratiche siriane) e costituiscono la versione siriana del Pkk che da quarant’anni dà filo da torcere al governo turco nel sud-est del paese.
Cosa c’entra l’Occidente
E l’Occidente cosa c’entra in tutto questo? C’entra, perché americani ed europei sono i grandi protettori delle Fds, che hanno combattuto sul terreno l’Isis con la loro assistenza e copertura aerea; sempre loro hanno fornito appoggi politici, diplomatici e finanziari ai ribelli siriani, e poi si sono tirati indietro proprio quando la Turchia è entrata nella partita; sempre loro non riconoscono la repubblica cipriota turca né gli accordi marittimi fra Tripoli ed Ankara per lo sfruttamento dei giacimenti sottomarini. Per questo Erdogan provoca continuamente la Nato con acquisti di armi russe, accordi per gasdotti e summit a ripetizione con Putin.
Le provocazioni di Erdogan e l’abilità propagandistica russa hanno effettivamente consolidato l’immagine di Turchia e Russia come due paesi che nonostante alcuni dissensi convergono nell’obiettivo comune di contrastare l’egemonia americana, ognuno dei due conquistando progressivamente posizioni disertate dall’Occidente in ritirata. La realtà è molto diversa.
Russia indebolita, Turchia più forte
La Turchia si è dimostrata l’alleato della Nato maggiormente impegnato nell’indebolimento della sfera di influenza di Mosca: ha impedito ai russi di riconquistare per conto di Assad tutta la Siria, storico alleato di Mosca dai tempi di Assad padre; ha evitato la vittoria di Haftar in Tripolitania supportato dai mercenari della Wagner che avrebbe trasformato la Libia in un paese filo-russo; ha messo in crisi lo status quo fra Armenia e Azerbaigian sponsorizzato da Mosca rendendo possibile la vittoria azera e l’ingresso di truppe turche nel Caucaso; sta procurando all’Ucraina impegnata nel braccio di ferro con la Russia i droni con cui combattere i filo-russi nel Donbass ed eventualmente altrove.
D’altra parte la Russia, presentata come attore aggressivo sulla scena geopolitica, sta in realtà cercando di limitare le perdite: il prezzo dell’annessione della Crimea e del Donbass trasformato in protettorato russo è l’uscita dell’Ucraina dalla sfera di influenza russa; in Siria il regime filo-russo è stato salvato, ma un terzo del territorio è sotto il controllo delle Fds filo-occidentali o sotto protettorato turco; l’operazione Libia è fallita.
Senza fare nulla, l’alleanza occidentale si ritrova con una Russia indebolita e con una Turchia che minaccia di gettarsi fra le braccia della Russia, ma che non viene presa troppo sul serio, perché tutti sanno essere cosa impossibile. Non solo per la storica rivalità che dipende dalla geografia (le direttrici dell’espansione di influenza dei due paesi, come in precedenza degli imperi di cui facevano parte, coincidono: nel Mar Nero, nel Mediterraneo, nel Caucaso e nei Balcani Mosca e Ankara sono necessariamente rivali), ma per la dipendenza economica, commerciale e finanziaria della Turchia dall’Occidente.
Ankara ha bisogno di investimenti esteri
Come ha dimostrato la crisi valutaria del 2018, solo Europa, Usa e Fondo monetario internazionale (Fmi) sono disposti e in grado di salvare il paese da una possibile bancarotta. La Russia non potrebbe farlo se non altro per mancanza di mezzi, la Cina non lo fa perché non è nel suo interesse (la Turchia è un competitore commerciale per il basso costo della sua manodopera).
Con una bolletta di import energetico da 30 miliardi di dollari all’anno, la Turchia ha disperatamente bisogno di investimenti dall’estero, e questi arrivano dai paesi della Nato e dell’Ocse per il 78 per cento, dalla Russia, dalla Cina e dai paesi del Golfo solo per il 15-16 per cento. Lo stesso dicasi per i rapporti commerciali: nel 2018 la Turchia importava dalla Cina per 20,7 miliardi di dollari ed esportava per appena 2,9; stesso discorso con la Russia: 22 miliardi di importazioni (per lo più gas), soltanto 3,4 di export. Quando invece la Turchia esporta in Germania per 16,1 miliardi, in Gran Brtagna per 11,1, in Italia per 9,6 e negli Stati Uniti per 8,3.
La Turchia fa la faccia feroce con l’Occidente, ma cuore e portafoglio non sono dalla stessa parte: la realtà della dipendenza economico-finanziaria si scontra con le aspirazioni neo-ottomane. Con un unico bemolle: in questa dipendenza c’è un versante di reciprocità, non fosse altro per il fatto che l’80 per cento del debito estero della Turchia è detenuto da banche di paesi dell’Unione Europea, specialmente Francia e Spagna. Se Ankara dichiara bancarotta, affondano anche importanti istituti di credito europei.