Se potesse scegliere, Hosni Kaliya tornerebbe indietro e rifarebbe tutto. Il 42enne non aveva alcuna intenzione di dare il via alla Primavera araba, ma suo malgrado è successo. Dopo il suo paese, la Tunisia, il fuoco della ribellione si è propagato in Egitto, Libia, Siria e altri paesi, causando decine di migliaia di morti e pochi cambiamenti. «È stato uno sbaglio, non sapevo che cosa sarebbe successo. Ma non credo più nella rivoluzione».
CINQUE ANNI DOPO. Kaliya ha rilasciato le sue dichiarazioni amare al Der Spiegel a cinque anni dall’inizio della rivoluzione, in un momento in cui il governo della Tunisia ha imposto il coprifuoco notturno in tutto il paese a causa delle violente proteste contro la disoccupazione. Il lavoro che manca è un problema che affligge la Tunisia da anni: ha contribuito a causare la rivoluzione ma ancora oggi non è stato risolto.
CORPO STRAZIATO. I simboli della Primavera araba in Tunisia sono due uomini, che per protesta si sono dati fuoco: uno è Mohamed Bouazizi, l’altro Hosni Kaliya. Il primo è morto per le ustioni, il secondo è sopravvissuto, anche se oggi vorrebbe «essere morto». La mano destra di Kaliya è stata consumata dalle fiamme e ora è ridotta a un moncherino. La mano sinistra, invece, ha ancora quattro dita su cinque anche se sono bruciate, rigide e contorte. La pelle del volto è bruciata, le orecchie sono diventate piccolissime e questi difetti non si possono nascondere con i guanti. Con i polmoni e la trachea danneggiati dalle fiamme Kaliya non dovrebbe fumare, ma le sigarette sono una delle poche gioie che gli restano.
«SAI PERCHÉ SIAMO QUI?». Nel 2011, quando tutto è cominciato, aveva un ottimo lavoro in un resort di Sousse e guadagnava bene. Il 3 gennaio, mentre si trovava a Kasserine in ferie per far visita alla famiglia, venne fermato in strada dalla polizia. «Ero vestito bene e avevo molti soldi in tasca. La polizia ha adocchiato un anello che portavo al dito e mi ha detto: “Sai perché siamo qui? Per incularci la gente come te”».
L’AUTO-IMMOLAZIONE. Detto questo, lo riempirono di botte. Kaliya li denunciò, un atto da non fare sotto il regime di Ben Ali. Tre giorni dopo, rivide il poliziotto denunciato e lui gliela fece pagare. Questa volta Kaliya reagì e altri poliziotti vennero a dare man forte al collega. «Mi lasciarono sanguinante steso per terra, mi sentivo come un insetto calpestato. Non ero più in me, non sapevo che cosa stessi facendo. Comprai una bottiglia di gasolio lì vicino, me la versai in testa e tirai fuori l’accendino».
IL RISVEGLIO. I successivi otto mesi Kaliya li passò all’ospedale. Mentre lui era incosciente, la rivoluzione scoppiò anche a Kasserine, dove la gente scese in strada nel suo nome per vendicarlo. Quando si svegliò, Ben Ali era fuggito, la rivoluzione aveva vinto, e la democrazia era stata instaurata in Tunisia. Eppure Kaliya è convinto che «non ne è valsa la pena»: troppi morti, troppo dolore e troppi pochi cambiamenti.
LE CURE. Kaliya è un uomo importante in Tunisia ma la speciale commissione che aiuta gli “eroi” come lui, e che gli paga un appartamento a Tunisi dove si trova un ospedale specializzato in grado di curarlo, da tempo ha smesso di pagargli le operazioni che gli sono necessarie per riprendere una vita normale. «Mi lasciano marcire in questa casa», si lamenta l’uomo.
«MALEDICO QUESTA RIVOLUZIONE». In più, proprio come prima, a Kasserine il lavoro scarseggia. Il fratello di Kaliya, Saber, 35 anni, è stato licenziato l’estate scorsa e non avendo prospettive ha seguito la strada del fratello: si è dato fuoco nel cortile di casa e il 14 ottobre è morto in ospedale. «Io maledico questa rivoluzione, rivoglio indietro mio figlio», piange la madre. «Sempre più persone moriranno, sempre più persone combatteranno e si daranno fuoco. Non c’è futuro». La protesta contro la disoccupazione che sta mettendo a soqquadro in queste ore la Tunisia è partita proprio da Kasserine.
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