Trump non è un’anomalia del sistema
Più si studiano i dati della schiacciante vittoria di Donald Trump, più emerge chiaramente un fatto: non era un’anomalia del sistema. Non era un’influenza che si poteva curare, come ha cercato goffamente di fare il partito democratico, con massicce dosi di establishment e ripetizione a oltranza di terapie che avevano già portato a una rovinosa (ed evidentemente non compresa) sconfitta elettorale nel 2016. Trump è una forza stabile che ha cambiato l’America. Con tutti i limiti, le brutture, le incoerenze e le nefandezze che il personaggio contiene, certo.
Ma i numeri che stanno emergendo raccontano di un’ampia e composita coalizione elettorale che lo ha sostenuto, un mosaico di minoranze, generi, età, estrazione sociale e reddito che non si può spiegare con la vecchia e spaventosa favola del risentimento razzista dei “forgotten men” bianchi.
Perché Trump ha parlato di un “movimento”
Nella composizione che ha portato Trump di nuovo a essere eletto presidente emerge quello che i politologi chiamano un riallineamento, e le caratteristiche specifiche di questo elettorato composito non appaiono ben definite se le si valuta con i criteri della politica di ieri. Per questo il rieletto presidente parla di un “movimento” – e solo in subordine di un partito – cioè un popolo con caratteri magmatici e in divenire, non una struttura con ordini di scuderia e gerarchie.
Secondo i dati preliminari analizzati dalla Associated Press, Trump nel giro di quattro anni ha raddoppiato il sostegno fra gli afroamericani (15 per cento) e ha guadagnato 6 punti fra gli ispanici, arrivando al 41 per cento della comunità. Fra gli elettori senza la laurea di qualunque etnia ha battuto Kamala Harris di 12 punti percentuali, mentre aveva staccato Biden nel 2020 solo di quattro punti. Il partito ha aumentato il numero di votanti rispetto al 2020 in 48 stati, tutti tranne lo stato di Washington e lo Utah. Ha guadagnato nelle aree urbane, suburbane e rurali. Un caso notevole è quello dello stato di New York, così democratico che i candidati non ci vanno e tanti non si prendono nemmeno la briga di andare a votare, dove i repubblicani hanno guadagnato 7 punti. Significa che qualcosa si è mosso nelle profondità elettorali del paese.
Una coalizione eterogenea di elettori
Si tratta di una coalizione molto eterogenea che si è affidata a Trump per ragioni e con aspettative molto diverse. Alcune sono ragioni identitarie, altre economiche, altre ancora culturali e religiose. Qualcuno vuole meno tasse e regole severe sull’immigrazione, altri lotta alla criminalità e restrizioni sul diritto all’aborto. Altri ancora vogliono il disimpegno militare americano dagli scenari di guerra. Alcuni lo votano perché ha i bagni d’oro e non ha mai letto un libro in vita sua. «La presidenza Trump parla al senso di marginalizzazione sperimentato da coloro che sentono di essere stati troppo a lungo abbandonati culturalmente, e dice della fede nell’unica persona che ha dato voce alla loro frustrazione, mettendole al centro della vita americana», ha detto Melody Barnes, ex consigliere di Barack Obama. Ma c’è anche di più.
Chi aderisce al trumpismo non lo fa per un’agenda
Trump ama dire – e lo ha ripetuto anche nel discorso della vittoria – che il suo è il partito del “senso comune”, e dunque il movimento convoglia tutti quelli che non credono alla realtà parallela dell’universo woke e dicono le cose come stanno. Questa composita comunità non è unita da una precisa agenda di riforme. Non è quello che Trump ha promesso di fare da presidente il punto centrale della loro adesione al trumpismo.
Queste eterogeneità spiega anche perché a fronte di un massiccio dispiegamento elettorale per Trump, la gran parte dei referendum sull’aborto nell’Election day non è andata in direzione pro life. In sette stati sono passate iniziative per confermare o estendere il diritto all’aborto, in Arizona e Missouri sono stati eliminati i divieti vigenti. Soltanto in Nebraska, South Dakota e Florida sono state fermate norme che avrebbero esteso l’interruzione di gravidanza.
Il programma di Trump è convenzionalmente di destra
In questa ricomposizione del popolo repubblicano, Trump propone – al netto delle iperboli tipiche del personaggio, alcune senza dubbio preoccupanti se prese alla lettera – iniziative politiche che sono tutto sommato convenzionalmente di destra. In campagna elettorale ha parlato ossessivamente, e quasi esclusivamente, di protezionismo e misure per il contrasto all’immigrazione clandestina, idee che sono nelle agende di molti governi e perfino dell’Amministrazione Biden, che ha infatti rinnovato i dazi che aveva approvato Trump durante il suo mandato.
Anche sull’immigrazione il governo democratico ha sostenuto una riforma bipartisan che aumenta il potere della Casa Bianca di rimpatriare i clandestini, riduce la possibilità di chiedere asilo e finanzia l’estensione del muro al confine con il Messico.
Iperbolico e irrazionale come il popolo che lo ha votato
Sull’adesione alla Nato e il rimproveri agli alleati “scrocconi” europei, Trump dice con toni crudi e minacciosi cose che ogni amministrazione americana ripete da decenni in modi più felpati. Sulle risoluzioni dei conflitti in Ucraina e Medio Oriente ha detto spacconate da bar – in un caso di sapore filoputiniano, nell’altro di sostegno a Netanyahu – che andranno messe alla prova della realtà, sull’aborto ha fatto capire di non volere sostenere un processo di sostanziale restrizione del diritto a livello federale. Ha promesso cose iperboliche, retrograde, irrazionali, innovative, di “senso comune”, antiche, ovvie, già viste o ampiamente mainstream. Come il popolo americano che lo ha votato.