Gridare “al lupo al lupo” con Trump non è servito a nulla
Nella storia italiana delle errate previsioni sul futuro presidente statunitense rimarrà insuperabile la prima pagina del Manifesto del 3 novembre 2004. Allora il quotidiano comunista, mandando la sera prima in stampa il giornale, si basò solo sui primi exit pool che davano il candidato democratico John Kerry in vantaggio sul repubblicano George W. Bush. Il Manifesto azzardò titolo e foto di apertura del quotidiano che ritraeva un Kerry trionfante con il titolo “Good morning America”. Prevalse poi Bush con 286 elettori sui 538 disponibili.
Si parlò allora di wishful thinking, di una tendenza molto diffusa (non solo nella stampa italiana e non solo a sinistra) che porta a leggere la realtà secondo i propri desiderata, senza badare troppo alla durezza oggettiva dei fatti avversi. È affare che capita spesso ed è ricapitato anche questa volta con lo competizione per la Casa Bianca tra Donald Trump e Kamala Harris, fino all’ultimo presentata come un’elezione sul filo del rasoio e una battaglia tra le forze del bene e quelle del male.
Perché la lente dei media, che dovrebbero aiutare i lettori a mettere meglio a fuoco la realtà, ha invece un effetto così distorcente? Cosa non si è capito del fenomeno Trump? Ne abbiamo parlato con Alberto Mingardi, direttore generale dell’Istituto Bruno Leoni e professore di Storia delle dottrine politiche all’Università Iulm di Milano.
Tutti si aspettavano un “testa a testa” tra Trump e Harris, invece c’è stata una netta vittoria del repubblicano. Un evidente “errore di percezione”: voluto o innocente?
Credo abbiano concorso più fenomeni. Il primo è che queste elezioni sono state caricate di una straordinaria portata simbolica: a Donald Trump il Partito democratico ha contrapposto una candidata che avrebbe potuto essere la prima presidente donna e di colore. Già i media tendono a esagerare di loro, ma è stato facile presentare queste elezioni come una grande battaglia per la democrazia.
Il secondo è che Harris ha beneficiato di un supporto mediatico e da parte del mondo delle star senza precedenti: l’endorsement di Taylor Swift, da ultimo l’efficace spot di Harrison Ford, il continuo richiamo delle celebrity più diverse ad andare a votare. Ciò ha creato l’impressione in tutti i “grandi consumatori” di contenuti che il “vestito” di normalità cucito su Kamala Harris potesse prevalere sul diffuso sentimento di insoddisfazione degli americani per l’amministrazione Biden: dalla politica internazionale (incluso il sostegno a Zelensky) alla politica economica e, soprattutto, all’inflazione. E invece alle urne questo dato inequivocabile e certificato anche dagli exit poll di ieri ha prevalso su qualsiasi altra cosa.
In molti stanno ora sottolineando come quello di Trump sia un comeback come non si vedeva dai tempi di Richard Nixon. E come nel caso di Nixon contano sia le caratteristiche del candidato e la sua straordinaria tigna, sia e forse soprattutto il bilancio del predecessore. Le politiche di Biden – sostegno all’Ucraina, spesa a debito, transizione ecologica – sono quelle che le élite occidentali hanno sposato negli scorsi anni come se non vi potessero essere alternative. Tutto ciò che devia rispetto a esse viene classificato come populista e magari pure pericoloso per il futuro del mondo. Gli elettori americani sono apparsi meno entusiasti di una crescita drogata dal debito e che ha prodotto un’inflazione importante, con un impatto significativo sugli stessi generi di prima necessità, di quanto non siano i commentatori dei giornali.
Per mesi – ma potremmo dire per anni – i maggiori media statunitensi e internazionali hanno rappresentato il candidato repubblicano come un folle e un sovversivo. È evidente che Trump abbia uno stile aggressivo, spesso sopra le righe, certamente ben poco “istituzionale”, ma resta il fatto che la maggioranza degli americani l’abbiano scelto. A meno di pensare che la metà degli elettori statunitensi siano dei folli e dei sovversivi, che spiegazione possiamo dare di questa distanza tra quel che i media vogliono rappresentare e il voto popolare?
In realtà questo è un fenomeno meno nuovo di quel che sembra. Oggi non c’è democratico che non ammetta che Ronald Reagan è stato un grande presidente. Ma all’epoca era considerato semplicemente un attore, ossessionato dal comunismo e troppo vecchio per governare. I repubblicani vantano un certo consenso nel mondo degli affari ma sono di solito respinti da quello dei media e dall’università. Sono tutti definiti “estremisti”, nel discorso pubblico, e alla fine cambia poco se lo sono per la loro agenda economica (come Goldwater o Reagan) o culturale (come Trump).
Forse il consenso di Trump è anche una conseguenza inintenzionale di troppi anni nei quali si è gridato al lupo senza motivo. In qualche modo gli elettori non di sinistra si sono abituati a scontare il tentativo di demonizzazione dell’avversario. E questo ha depotenziato la critica a Trump.
È opportuno aggiungere due cose. La prima è che se Trump è visto come un generatore di fake news, i suoi avversari non sono stati per nulla da meno. Pensiamo al “plotone di esecuzione per Liz Cheney”. Dalla Cnn ai grandi quotidiani internazionali, tutti hanno raccontato l’intervista di Tucker Carlson a Trump, in Arizona, come se avesse istigato a sparare alla figlia dell’ex vice presidente. Lei stessa ci ha marciato, su Twitter/X. Ma la registrazione è disponibile al prezzo di un paio di clic ed è abbastanza evidente che Trump non si è affatto augurato la morte dell’ex repubblicana. I toni sono quel che sono (diciamo che Trump non vincerebbe un Premio per il galateo, soprattutto con le signore) ma la critica era all’establishment statunitense, sempre pronto a immaginare nuovi interventi militari all’estero. Trump non è certo il primo a dire che chi vuole mandare in guerra i soldati del suo Paese dovrebbe, lui o lei per prima, finire in prima linea.
La distorsione di dichiarazione come questa ha indebolito il tentativo di demonizzare Trump e ha ulteriormente delegittimato l’establishment.
Questo è rilevante soprattutto in un periodo come il nostro, nel quale la passione per le cause politicamente corrette e un certo lessico sono, come ha scritto Luca Ricolfi nel suo ultimo libro, il modo nel quale l’élite si legittima e si giustifica di fronte a se stessa. C’è tutto un popolo che, a torto o ragione, non ritiene quella dei pronomi una questione rilevante, che si sente, a torto o a ragione, obbligato persino a parlare in un modo che avverte come alieno e distante e che percepisce di contare sempre meno nella decisione politica. Questo è il popolo di Trump. Sorprende che le élite abbiano deciso (in Europa la situazione non è molto diversa) di non provare nemmeno a parlarci e di limitarsi a bollarlo come “spazzatura”.
Ora che gli Stati Uniti hanno scelto Trump, quanto è fondato il timore che egli scardinerà l’ordine democratico?
Come diceva Yogi Berra è difficile fare previsioni soprattutto sul futuro. Ma possiamo dire che gli Stati Uniti e il mondo sono già sopravvissuti a quattro anni di Trump. Quello è un Paese dove pesi e contrappesi sono forti e in realtà, sotto certi punti di vista, avere un presidente sgradito all’establishment mediatico forse può servire per ridimensionare il mito della stessa figura del presidente, i cui poteri si sono dilatati nel corso degli anni.
Purtroppo i commentatori, non solo negli Stati Uniti, sono più isterici dei lettori e oscillano sempre fra il dire che Obama (o Draghi) dovrebbero avere poteri illimitati e solo coi Trump della situazione riscoprono che il prezzo della libertà è l’eterna vigilanza. I Padri fondatori statunitensi erano più saggi e hanno costruito un sistema che, per quanto più sbrindellato oggi che un tempo, è fatto per erodere le ambizioni del potere assoluto.
Guardando l’elezione da un punto di vista dell’interesse europeo e italiano, cosa dobbiamo aspettarci da Trump? Quali vantaggi e quali svantaggi?
Nello scenario più estremo che alcuni temono, e che non si realizzerà, Trump lascerà l’Europa a se stessa, scioglierà la Nato e abolirà ogni politica “green”. Questo non accadrà, perché l’inerzia è una delle forze più potenti in politica. Ma sicuramente Trump sarà meno disponibile a pagare per la difesa dell’Europa (lo ha già dimostrato nel suo primo quadriennio) e probabilmente rivedrà almeno i tempi della cosiddetta “transizione ecologica”. Proteggerà il free speech delle piattaforme, a cominciare dal suo amico Musk con X, ed eviterà il ricorso a forme coercitive di regolamentazione della libertà di parola. Proverà a mettere dazi molto elevati, convinto (sulla base di ragionamenti sballati) che il costo resti sulle spalle dei produttori stranieri.
L’Europa può fare due cose: arroccarsi sulla dottrina Von der Leyen e segnalare con dichiarazioni e politiche la propria “virtù” contro la “viziosità” americana. Questo vuol dire che le nostre politiche climatiche saranno ancora più irrilevanti (da soli si fa poco) e che il costo della guerra in Ucraina ricadrà solo sulle nostre spalle. Oppure ricominciare a ragionare come fanno le persone adulte: provare, in parte, a smarcarsi dall’egemonia americana, immaginando una politica internazionale autonoma ma anche mutando atteggiamento rispetto ad altri partner commerciali, come la Cina. E impegnarsi a negoziare con Trump, anche se è Trump, per disinnescare la mina del nuovo protezionismo Usa.
Quest’ultima sarebbe la soluzione più ragionevole: dopotutto, se avesse vinto Harris e Orban avesse rifiutato di averci a che fare, l’avremmo liquidata come una follia. Ma sono pessimista. Negli ultimi anni l’Unione europea ha copiato con grande gioia tutto quanto di più dirigista veniva dagli Stati Uniti, a cominciare dai sussidi dell’Inflation Reduction Act di Biden, senza neppure interrogarsi su costi e benefici potenziali. Giustamente biasimiamo i toni trumpiani e più in generale quelli dei populisti, che fanno appello alla pancia. Ma purtroppo l’establishment europeo è “razionalista” ma irragionevole. Le sue azioni sono improntate al virtue signaling più che a una lucida interpretazione del proprio interesse.
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