Il grande flop dei vip per Harris
Gli endorsement vip per Kamala Harris sono stati un apostrofo rosa tra il «mi sto abbracciando da solo» con cui Paolo Gentiloni nel 2020 salutò la vittoria di Joe Biden e il cartello elettorale sorretto da Roberto Speranza, sornione e sorridente, alla convention dem di agosto scorso. Una enorme proiezione psicologica. Desiderata psico-intellettuali da innesto neurale alla William Gibson, con il Centro storico e le redazioni chic e la metafora arguta e il disprezzo per qualunque cosa sia veramente popolare al posto di Chiba.
Una allucinazione politico-psichedelica che avrebbe lasciato a vagare per deserti del reale Ballard e Burroughs e Anton Wilson, ebbri e stremati da tanto fantasioso e quasi sessuale trasporto di intellettuali progressisti per terre che non abitano e che non conoscono e di cui pure vogliono narrarci tutto. Una transustanziazione caotica e trickster in cui Richard Gere, Alan Friedman, Massimo Giannini, Taylor Swift e Arnold Schwarzenegger agglomerati e raggomitolati tra loro in una forma ricombinante lasciano campo e spazio a Terence McKenna, Timothy Leary e Carlos Castaneda, in un vortice, in un tornado, in un big bang, e in una gang bang, delirante, tremolante, sfrigolante come pancetta arsa sulla piastra di una friggitoria del Texas, a incarnare l’ologramma baudrillardiano della volontà del popolo, della connessione profonda, rizomatica con il deplorable della Virginia.
Da Stephen King a Lilli Gruber passando per Elly Schlein e Robert De Niro
Sostituiamo solo il peyote e il Nagual con le aree Ztl, il brunch da terrazza con vista sfilate della moda o Fori Imperiali, quel parlottare bleso e impegolato in dimensioni iperuraniche di un progressismo Bdsm alla “Abolizione del suffragio universale” o alla Sentinelli o all’editoriale a caso di Stampa o Repubblica – gli editoriali qui si intende di quelli belli, di quelli intensi, di quelli che da un loft newyorchese da sette milioni di dollari ci spiegano la realtà vera e profonda degli Appalachi e della Rust Belt, e in cui si confondono Richmond e Des Moines con CityLife o il Coppedè.
Attori di Hollywood. Rockstar. Intellettuali e scrittori. Stephen King, che fa categoria a sé. Lilli Gruber e il suo parterre. Oprah Winfrey. Jennifer Lopez. Beyoncé. Elly Schlein sul palco degli Articolo 31. Robert De Niro. Aldo Cazzullo. Jimmy Carter, portato a votare criogenizzato, dopo aver superato i 712 anni di età. Bruce Springsteen, sempre più dolente e vestito molto working class, cioè vestito come quelli che poi in massa hanno votato per Trump, dimostrando il peso della differenza che intercorre tra torero e smerda-tori. George Clooney. Ciascuno a suo modo, ciascuno con enfasi apocalittica crescente, tutti accomunati non solo dal sostenere la Harris ma anche dal dovere quasi morale di dipingere Trump come un emissario del Diavolo sulla terra.
L’illusione di spostare voti e contare più di un operaio
Sentendoli, e soprattutto guardandoli, così fieri, così impettiti, così sicuri di poter spostare voti, di esercitare influenza reale sui loro fan, come se la loro opinione fosse diversa e più potente di quella di un operaio o di un contadino o di un avvocato, viene alla mente la scena in cui Ben Stiller, pure lui fiero endorsatore della Harris, nel film Zoolander interpreta un modello vanesio e sciocchino che per riconnettersi col padre minatore quasi perduto se ne va, tutto caruccio e truccato, nelle viscere della terra a fare il minatore. Con esiti non dissimili da quelli recentemente emersi dalle urne americane.
Oppure vengono alla mente le feroci e lucidissime parole con cui Ricky Gervais, durante una serata di premiazione dei Golden Globe, fece a pezzi, lentamente, inesorabilmente, la saccente tracotanza dei vip. «Se vincete un premio questa sera non salite qui sopra utilizzando questo palco per discorsi politici. Non siete nella posizione di dare lezioni al pubblico su nulla, non sapete nulla della realtà. Molti di voi hanno passato meno tempo a scuola di Greta Thunberg», disse loro. E quelli, furbissimi, applaudirono ridendo. Pensando che mica ce l’avesse con loro.
Generatore automatico di indignazione
“Collera divina, fuoco e zolfo che piovono dai cieli, fiumi e oceani che bollono!”
“Quarant’anni di tenebre, eruzioni, terremoti!”
“Morti che escono dalle fosse!”
“Sacrifici umani, cani e gatti che vivono insieme! Masse isteriche!”
È una delle scene più efficaci e divertenti del film Ghostbusters. Ma sarà anche, di qui a venti minuti, l’editoriale ontologicamente indignato di tutta la stampa progressista del globo. Sarà l’ordine del discorso, traslatosi da Foucault a Propaganda Live, con la faccia funerea dell’automa progressista e inesorabilmente vip che vede, per l’ennesima volta, i fatti e la realtà non conformarsi ai suoi desideri reconditi.
Generatori automatici di indignazione che erutteranno fiamme, scenari distopici e dispotici, insulti contro il popolo bue blandito fino a due minuti prima, promesse di espatrio e fuga su remote isole che si sono comprati mesi prima potendoselo permettere – l’importante è che non si tratti dell’isola di Epstein – la solita richiesta di istituire una democrazia epistocratica, meritocratica, con voto asimmetrico a seconda dei titoli di studio, loro che ci insegnavano i pericoli della democrazia illiberale, della democratura, ora scriveranno che la democrazia va protetta da se stessa limitando qualunque libertà immaginabile, loro che piagnucolavano di golpe per i fatti di Capitol Hill e sono rimasti in un cantuccio a bere aranciata, silenti, forse un po’ gongolanti, quando Trump schivava il piombo.
I critici della retorica dell’odio pronti a odiare Trump
Agogneranno il colpo di coda “democratico” di Biden e del “Deep State” e dei ribelli della galassia, d’altronde Mark Hamill già sta dalla parte loro, Jedi e Gruppo Gedi uniti nella lotta, paventeranno scenari di purissimo complotto dopo aver irriso i complottisti per anni, si affideranno alle cure magistratuali, dalla Corte suprema al giudice di pace di Velletri, nella speranza di ricorsi, impeachment, galera, denunce.
Odieranno. Odieranno tantissimo. Loro che criticavano la retorica dell’odio. Insulteranno, spargeranno fiele. I profeti dell’amore si sveglieranno epifanicamente più crudeli di Vlad Dracul. Anche se il palo al momento lo sorreggono loro. E non dirò con cosa.
Cercheranno, lanterna alla mano, il colpevole, il capro espiatorio, il mostro, chi ha reso possibile questo inferno sulla terra. Compreranno i libri di René Girard e di Agamben ma non capendoli vireranno su YouTube per guardare i video di loro stessi quando spiegavano agli americani, loro che sono nati a Vedano Olona o a Usmate Velate, che Trump è letteralmente Satana e che un voto per Kamala Harris sarebbe stato un voto per il green, per i bagni gender-fluid, insomma per le cose belle della vita se la tua preoccupazione principale è dove andare a sciare il weekend prossimo.
Ma gli indignati per Trump resteranno in America
E adesso cosa rimane loro? Le loro ville, i loro attici, i loro conti in banca, i loro party, la loro vita scintillante, e smaltita la mestizia torneranno a girare i loro film, ad arringare le loro folle negli stadi e nei cinema, a scribacchiare editoriali colmi di risentimento e a vincere prestigiosi premi letterari che si assegnano da soli.
Nonostante avessero descritto Trump come una via di mezzo tra Hitler e Pazuzu, resteranno in America e a Milano, incasseranno i loro cachet, sfileranno sui tappeti rossi, moriranno ogni tanto di droga, continueranno a pontificare quando gliene sarà data occasione. E la gente, ovviamente, continuerà a spernacchiarli.
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