
La preghiera del mattino
Tra il cinismo dei Franceschini e le banalità dei Bonaccini, il Pd è perduto

Su Strisciarossa Antono Floridia scrive: «In oltre dieci anni, il Pd ha quasi sempre governato, con l’eccezione del governo giallo-verde (dal 1° giugno 2018 al 5 settembre 2019): e, obiettivamente, risultava molto plausibile l’argomento polemico usato dalla destra, ossia che il Pd aveva sempre governato “senza mai aver vinto un’elezione”. E in effetti, il Pd ha governato con il governo tecnico di Monti; poi con Letta e con Renzi (maggioranze, ricordiamolo, che comprendevano il Nuovo Centrodestra di Angelino Alfano, Scelta civica di Monti e l’Udc) e con Gentiloni (che aveva una maggioranza variopinta); solo una volta, in questo decennio, il Pd ha governato con una maggioranza parlamentare, quella giallo-rossa del Conte II, che avrebbe potuto configurarsi come la base di una possibile coalizione politica, in grado di proiettarsi alle successive elezioni con una proposta di governo. Non è accaduto».
Il Partito democratico nasce dalla fusione dei Democratici di sinistra e della Margherita compiuta dopo la vittoria elettorale dell’Ulivo e la formazione del governo Prodi. Proprio la sconfitta di quel governo spinse i “democratici” a cercare non un’identità ma quella via per restare al potere che gli venne offerta dalla sponda di Giorgio Napolitano allora presidente della Repubblica: una scorciatoia che diventò una maledizione e si concluse con il risultato elettorale del Movimento 5 stelle arrivato al 32 per cento nel 2018.
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Sulla Zuppa di Porro Giuseppe De Lorenzo scrive: «Federico Rampini, ieri sera a Quarta Repubblica, ha colto il punto esatto della questione: “La vicepresidente avrebbe dovuto essere espulsa dal Partito socialista europeo per aver affermato quelle cose, per aver detto che il Qatar è all’avanguardia nei diritti umani”. Non per le mazzette. Ma per non aver difeso “quei valori che i progressisti professano”».
Rampini spiega come la questione del Qatargate non sia soltanto quella della corruzione materiale, ma quella della corruzione spirituale di una sinistra che assiste a una sua esponente di primo piano sostenere come a Doha vi sia un rispetto dei diritti per certi verso maggiore di quello che c’è in Europa. Il fenomeno di una sinistra che ha perso la sua anima non è solo italiano: tendenze simili si sono espresse anche in Spagna, mentre in Francia hanno prodotto la svolta radicalizzata del melenchonismo, e in Germania una certa impasse della Spd (salvata in parte dal suo rapporto con i lavoratori). Queste tendenze politiche si sono incrementate in questi anni grazie alla scelta macroniana di puntare sulla tecnocratizzazione della politica, dichiarando di fatto la sua fine con la scomparsa della “destra” e della “sinistra”, e, d’altro verso, grazie alla merkelizzazione della politica stessa, cioè la sostituzione delle scelte politiche con il mercantilismo. In questo contesto la disgregazione della sinistra di casa nostra ha però un suo tratto peculiare.
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Su Dagospia si riprende un articolo di Sebastiano Messina per La Repubblica dove si scrive: «L’astutissimo Dario Franceschini – che è stato veltroniano con Veltroni, renziano con Renzi, zingarettiano con Zingaretti e lettiano con Letta – ha deciso di appoggiare Elly Schlein come segretaria del Pd».
Che cosa ha in comune un politico di formazione morotea come Franceschini con una Schlein che rappresenta la più compiuta e ipermondana ideologizzazione radicale? Il fatto che la seconda è considerata dal primo un utile strumento per una lotta di puro potere. Questo cinismo esplicitato così apertamente spiega bene molte degenerazioni venute alla luce in questi giorni. Una sorta di “se non c’è più Marx, tutto diventa possibile”. Cinismo, personalizzazione, patrimonializzazione dell’impegno (cioè “mi metto in politica per accumulare tesoretti grazie all’attività pubblica”), narcisismo ai livelli più impensabili, indifferenza ai valori della propria tradizione (per esempio una Cgil che chiama il 1° maggio Federico Leonardo Lucia detto Fedez a dare consigli morali al suo popolo) non riguardano solo la sinistra, ma mentre a destra si colgono forme di resistenza a questi processi, a sinistra la disgregazione è tale da sembrare quasi paralizzare qualsiasi tentativo di rigenerazione.
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Su Open si scrive: «Stefano Bonaccini spiega come sarà il “suo” Partito democratico. In un’intervista rilasciata a La Stampa il candidato alla segretaria dice che serve un grande partito riformista “altrimenti Meloni governerà per 20 anni”. Rimarca la differenza tra lui e Renzi (“è uscito dal Pd e ora vuole i suoi voti, io no”). Ma boccia anche il Movimento 5 stelle di Giuseppe Conte: “Soffia sui problemi senza offrire soluzioni”. E si rallegra dell’iscrizione della sfidante Elly Schlein al Pd. Ma soprattutto: dichiara anche lui, come l’avversaria, guerra alle correnti: “Hanno esaurito la loro funzione. Non stanno producendo pensiero, sintesi, classe dirigente, merito. Un grande partito o è plurale e aperto o non è, ma bisogna cambiare radicalmente. Io ho chiesto a ciascuno e a tutti di valutare le proposte che avanzo, ma di cambiali non ne firmo e non offrirò rendite di posizione. Lo dico prima per chiarezza e forse così si paga un prezzo, ma dall’opposizione ce lo possiamo permettere”».
Il governatore dell’Emilia-Romagna magari potrà vincere la sfida con la Schlein per conquistare il congresso del Pd sulla base di simili, forse necessarie, banalità. Però sicuramente su questa base non riuscirà a frenare la disgregazione in atto, la logica della politica patrimonializzatrice dei mille piccoli e grandi cacicchi annidati nel Pd. La crisi della politica in Italia nasce dalla crisi dello Stato: a questa crisi la destra risponde con qualche sforzo non sempre elaborato (presidenzialismo, autonomismo/federalismo, logica sussidiaria, impegno a riformare in senso democratico l’Europa, ripristino di una funzione neutrale della magistratura nella vita politica, un qualche richiamo alla tradizione per dare una base allo Stato). Se a questo sforzo, pur spesso non brillantissimo, si risponderà solo con frasi più o meno generiche, la partita della sinistra è persa perché, nonostante ciò che pensa una parte del nostro ceto politico, i cittadini non sono stupidi. Ecco perché oltre alle “banalità necessarie”, Bonaccini dovrà tentare di aver anche un approccio costituente (quindi rivolto pure alla maggioranza di destra) alla crisi del nostro Stato.
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