
Ti chiamerò Ismaele

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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Quando il telegiornale annuncia la scomparsa di un bambino o di un ragazzo il mio cuore va in tilt. Ricado nello stordimento di quel giorno in cui persi mio figlio in spiaggia in mezzo a una confusione pazzesca di gente: prima c’era, giocava di fronte a me, un attimo dopo non c’era più. Fu un quarto d’ora di panico infernale, fino a quando vidi che era tornato al nostro ombrellone. Lo sgridai di essere scappato senza dir nulla, ma nel mio cuore pensai: «Bravo, sei tornato al punto di partenza».
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]Ho avvertito un dolore simile vedendo la foto sorridente di Marika, 13 anni, occhi buoni e apparecchio ai denti, che il Tg mostrava annunciando la sua scomparsa da Siracusa. Si teme il peggio in questi casi. Rapita? Scappata? Suicidata? Per fortuna la sua storia è a lieto fine, si è trattato di un allontanamento volontario. Una sera è andata ad allenarsi in piscina come d’abitudine, ma quel giorno il guazzabuglio della sua anima aveva bisogno di un tuffo in acque più profonde. È stata ritrovata a Paternò dove vivevano i suoi genitori biologici, «avevo nostalgia di loro» ha detto per giustificare il suo gesto. Era una ragazza senza problemi particolari, eppure. I suoi genitori adottivi sono persone ottime, eppure.
Eppure l’anima di un adolescente è un piccolo albero abbarbicato sulle pendici di un vulcano attivo, si nutre di lava bollente. Basta un piccolo litigio con gli amici, o un’incomprensione con mamma e papà, e si scatena l’ira di Dio dentro la testa e le viscere. Una microscopica scintilla è in grado di dar vita a un incendio indomabile. Da adulti impariamo – più o meno – ad addomesticare le questioni irrisolte che gridano dentro di noi, spesso rifugiandoci nei recinti precari dell’abitudine e nei gongolamenti passeggeri dei traguardi raggiunti. Da giovani no, è tutto questione di vita o di morte; e forse per certi versi è bene che sia così, perché l’irrazionalità giovanile pesca a profondità sensatissime.
Marika ha dato il nome giusto alla sua fuga ed è un’impresa che esiste da millenni, è Ulisse che si lascia alle spalle le battaglie di Troia e vuole tornare a casa. Nostos, la nostalgia è un viaggio eroico cominciato nella notte dei tempi, l’hanno fatto gli uomini delle caverne, i santi, i filosofi, i peccatori e i puri di cuore. Ci s’imbarcano tutti, l’ha fatto anche mio figlio quando si è sentito smarrito; è tornare al punto di partenza per capirci qualcosa. È un istinto cocciuto, atavico, possente; lo faccio anch’io: quando le cose si mettono male, mollo tutto e torno a casa di mio padre.
Lui è la creatura più simile a una balena che io conosca. Enorme e sproporzionato, rispetto a me e al mondo. Vicinissimo, eppure sprofondato negli abissi del suo cuore sghembo; ogni tanto ne riemerge con spruzzi improvvisi sopra il pelo d’acqua della normalità. Da sempre stare con lui ha significato fare i conti col mistero dell’universo intero e di me, con tutto quel che non ha risposta, che non lascia in pace, che non dà tregua. Eppure, quando le botte della vita mi assalgono, io scappo – anche solo per cinque minuti – da casa mia e vado da mio padre. Un viaggio di pochi chilometri, ma per nulla facile. Le sue parole non hanno mai spiegato nulla, raramente hanno dichiarato affetto, però per sciogliere i miei nodi ho bisogno della sua presenza, forse solo di vederlo, senza per forza capirci qualcosa. Devo togliermi dal mio guscio e spostarmi verso chi mi ha generato. Devo tentare di avvicinarmi alla mia origine, mistero talvolta così incomprensibile. Sarebbe più facile andare dal dottore e chiedergli un tranquillante, rifugiarmi tra le braccia rassicuranti di mia madre, ridere insieme ai miei figli.
Per non morire d’insensatezza
Ci sono volte in cui la risposta più sensata è nel posto meno rassicurante. Cioè: è più sensato chiedere, esigere, una risposta ai fastidi e alle ferite che, anziché lasciarci comodi lì dove siamo, ci metta nel bel mezzo di una ricerca azzardata, capace di proporci un punto di approdo in cui le nostre mille contraddizioni e disagi non siano semplicemente soffocati da un cerotto, ma arrivino a una sorgente ricca d’acqua sempre fresca.
La prima volta che lessi Moby Dick rimasi attonita, finalmente qualcuno raccontava i miei grovigli e osava dire che per scioglierli bisogna essere pronti a correre pericoli d’ogni tipo e a fare incontri ravvicinatissimi con le follie di altri uomini. È necessario lasciare il porto, fare una traversata in compagnia di marinai coraggiosi e inoltrarsi nell’oceano per stanare la pericolosa balena bianca. L’incipit del romanzo, nella traduzione di Cesare Pavese, è diventato un ritornello del cuore: «Ogni volta che mi ritrovo sulla bocca una smorfia amara; ogni volta che nell’anima ho un novembre umido e stillante; quando mi sorprendo a sostare senza volerlo davanti ai magazzini di casse da morto, o ad accodarmi a tutti i funerali… allora mi rendo conto che è tempo di mettermi in mare al più presto. Questo è il mio surrogato della pistola e della pallottola». Ismaele s’imbarca sul Pequod per non suicidarsi, rischia la vita andando a caccia della balena bianca per non morire di insensatezza. Sul suo dorso immacolato è scritto il segreto del mondo, inseguiamola!
Le vecchie storie di un tempo cominciavano dalla selva per uscirne; cominciavano dal suicidio, per evitarlo. Se un personaggio era in difficoltà, la trama alzava la posta in gioco con qualcosa di ancora più pericoloso ma entusiasmante. Le brutte mode di oggi propongono la morte autoinflitta come anestesia alle ferite del vivere. Ci ho pensato di recente quando un’altra balena ha fatto capolino nella quotidianità, erano quei giorni in cui non si parlava d’altro che del – vero o presunto – fenomeno Blue Whale, il gioco mortale in 50 tappe in cui un giovane si affida a un curatore fino ad arrivare alla tappa finale, saltare – suicidarsi.
Vero o presunto che sia, si può chiamare “curatore” qualcuno che ti accompagna a morire? Talvolta sembra pietoso chi spegne il fuoco, anziché attizzarlo. Ma Virgilio non diede un sedativo (o un coltello) a Dante mentre era mortalmente depresso nella selva, gli diede una spinta verso un’impresa all’altezza delle vertigini che tormentavano la mente del pellegrino. Lo invitò a intraprendere un viaggio folle e impegnativo fino alla vera casa dell’uomo, il regno dei Cieli.
Un vero curatore si occupa di ricucire una vita alla sua origine, non di affrettarne la fine. Il curatore sa che vale la pena soffiare sul fuoco, talvolta. Non tutti gli incendi sono cattivi e vanno spenti, alcuni – anche se tormentano l’anima – vanno semplicemente attizzati con legna diversa, affinché brucino di ardore buono e non più di rabbia cieca. Accendersi, spalancarsi, trepidare sono verbi adeguati ai nostri bisogni più veri. Anche sprofondare.
Assi cartesiani, bestemmie e pianti
Durante il suo viaggio alla ricerca della balena bianca, Ismaele assiste alla vicenda del piccolo mozzo di bordo, il negretto Pip che un giorno cade in mare. «Un fatto assai pieno di significato accadde al più insignificante dell’equipaggio», osserva il narratore: è un bimbo che precipita in fondo all’oceano e ne viene ripescato matto. Di colpo, lui si trova a tu per tu con l’origine del mondo, sprofonda giù negli abissi ed è un’esperienza che lo stordisce, Melville scrive che è come se avesse parlato direttamente con Dio, guardandolo mentre tiene il piede sul telaio nell’universo. Quando torna a bordo della nave, Pip diventa quello che molti definirebbero un idiota, parla in modo incomprensibile alle altre creature umane. Melville però annota: «E così la follia dell’uomo è la saggezza del cielo».
Il mistero del mondo è così grande che chi ne parla da testimone è giudicato pazzo. La verità del mondo non sta dentro gli assi cartesiani dell’uomo, deborda da ogni parte e in tutte le direzioni. È un gigante bianco sommerso sotto l’acqua e sotto i nostri piedi, oltre le maschere della gente, dietro le bestemmie e i pianti. Anche Dante, quando vide il mistero di Dio a tu per tu, perse le parole e sentì di essere capace solo di un fioco balbettio per raccontare agli altri la sua visione. Come Pip, fu un piccolo bimbo di fronte a un padre gigante; però senz’ombra di dubbio qualcosa comprese, intuì che Amore muove.
Figlia della ragione del cielo
Ci muoviamo, eccome. C’è gente che in treno non riesce a togliere le mani frenetiche dalla tastiera del cellulare, ci sono alunni che proprio non sanno star fermi quando sono seduti al loro banco, io mi mordo le unghie pur di non stare immobile. Quest’impazienza nevrotica e superficiale è nutrita da quella corrente sotterranea che esplose di fronte a Dante in Paradiso, è l’urgenza di correre verso casa, di ricondurre a un’origine tutti i pezzi scomposti del nostro puzzle.
Il bambino gioca e non sta mai fermo. L’adolescente urla, disubbidisce, piange e talvolta scappa di casa; si muove forsennato e scomposto, è pazzo. Ma questa follia è figlia della ragione del cielo, è il bisogno di un senso che sia ardente e spalancato. Un giovane può forse mettersi a seguire la diabolica tentazione di qualcuno che gli propone degli anestetici alla sua frenesia, ma seguirà con ancora più fervore un curatore, un educatore, un amico che gli proporrà di attraversare l’oceano per stanare la balena bianca.
Niente ha senso? I conti non tornano? Sei arrabbiato con tutto e tutti? Bene, partiamo insieme: non rimaniamo a riva, imbarchiamoci assieme in un viaggio fino alla fine del mondo, a conoscere altri uomini (le loro gioie e le loro ferite), a conoscere i tumulti della terra (i terremoti devastanti e gli acquazzoni benedetti sui campi riarsi), a conoscere il silenzio in cima alle montagne e il putiferio dei centri commerciali. Andiamo a vedere se ha ragione quel matto, se davvero è Amore che muove tutto questo.
Foto Ansa
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