Telegram, Meta e la grande ipocrisia del sistema mediatico e politico
Il 26 agosto 2024 è una di quelle date destinate, nel bene o nel male, a rimanere scritte nella storia. Il 26 agosto è stato infatti pubblicato il comunicato del Tribunale di Parigi con il quale, sia pure laconicamente, sono stati snocciolati alcuni dettagli della indagine che ha visto coinvolto l’amministratore delegato di Telegram, Pavel Durov, arrestato in Francia il 24 agosto, all’aeroporto di Parigi-Le Bourget.
Sempre il 26 agosto viene resa pubblica la lettera di Meta, a firma di Mark Zuckerberg, indirizzata all’House Judiciary Committee del Congresso americano: nella lettera si ammette di aver esercitato censura di contenuti sul Covid e sulla non meno spinosa vicenda concernente il figlio di Joe Biden, Hunter, su richiesta e dietro pressioni della amministrazione Biden/Harris.
Tutti parlano di Telegram, quasi nessuno di Zuckerberg
Una data, il 26 agosto, che rimarrà scolpita nel marmo della storia anche per segnalare ai posteri l’assoluta ipocrisia di un sistema mediatico e di un ceto intellettuale che pur sentendosi assediati da disinformazione e fake news, mai troppo ben definiti e perimetrati, si divaricano fino al punto di ingolfarci bulimicamente di dettagli, analisi, note, commenti, spesso in assenza di carte e riscontri, sul caso Telegram, e però di contro tacendo quasi del tutto sulla vicenda della lettera di Zuckerberg, relegata alla spirale del silenzio, per citare la sociologa Elisabeth Noelle-Neumann, o ad ombrosi cantucci dei giornali, generalmente dove si avventurano solo i più scaltri e i meno pigri tra i lettori.
Il caso Durov-Telegram
Pavel Durov, nato in Russia il 10 ottobre del 1984 ma da anni residente a Dubai, cittadino emiratino e anche francese, è da tempo al centro di polemiche e dell’interesse di governi, a partire da quello russo che con il magnate del tech, patron prima di VK e poi di Telegram, ha non banali conti in sospeso. Il suo arresto ha innescato una reazione furiosa di ipotesi, ricostruzioni, commenti, spesso in assenza di qualunque oggettivo riscontro oppure forzando i pochi elementi filtrati alla luce.
Abbiamo sentito e letto di tutto. Durov si sarebbe recato in Francia per consegnarsi di sua spontanea volontà alle autorità francesi, al fine di sfuggire ai russi che da tempo lo inseguono per avere le chiavi di cifratura della sua creatura di messaggistica. Durov è stato arrestato perché è in effetti corresponsabile dei reati che vengono perpetrati sulla sua piattaforma, tra cui figurano divulgazione di pedopornografia, terrorismo, frodi, crimine organizzato. Una sorta di riedizione della vicenda Silk Road, di Ross Ulbricht, in pratica. Con la differenza che Telegram è una app legale mentre Silk Road era una piattaforma clandestina raggiungibile solo nel ventre oscuro del dark web.
Un atto di intelligence e di guerra ibrida, più che una indagine giudiziaria, no, contrordine, una indagine giudiziaria perché è ora di finirla con il far west digitale, no, contrordine ancora una volta, si tratta di una vicenda di truffa internazionale riguardante la vendita di criptovalute, no, neanche questo, la vicenda è figlia di una decisione muscolare delle autorità francesi per dare un segnale ai russi che utilizzano Telegram in maniera organica, anche per la guerra di aggressione in Ucraina.
L’indagine su Telegram concerne il cyber-crime
In alcuni casi, complice la tuttologia spesso lambente la fuffologia di cui si veste il fact-checking, abbiamo anche assistito a strampalate e dadaiste operazioni interpretative del comunicato del Tribunale di Parigi.
Il comunicato, per quanto stringato, è abbastanza chiaro.
Si tratta di una indagine concernente il cyber-crime, come emerge empiricamente anche dal fatto che a curare le operazioni sia JUNALCO, organismo preposto al contrasto al crimine digitale. Leggendo con cura ermeneutica il comunicato stesso emergono particolari che nella prospettiva del diritto penale liberale sono abnormi e preoccupanti. L’indagine è ovviamente condotta contro soggetti unnamed, innominati, sconosciuti, come sempre avviene nei confronti del digitale. Si identifica la fattispecie di reato, e da questa poi si risale lungo le praterie digitali agli ipotetici responsabili.
Le contestazioni a Durov
Le contestazioni sono gravissime e pesanti e tutte, contrariamente a quanto asseriscono improvvisati giuristi della domenica, sono rivolte alla piattaforma. Infatti le contestazioni di divulgazione di materiale pedopornografico, di frode, e via dicendo, sono tutte precedute dalla specifica che si procede per “complicité”, prevista dall’articolo 121-7 del codice penale francese. Quindi non è questa l’indagine su individui, non facenti parte dell’organico di Telegram, che abbiano praticato su Telegram pedopornografia, terrorismo, crimine organizzato, truffe, i quali vengono di volta in volta investigati e del caso giudicati in via autonoma.
Questa è una indagine sul fatto che la piattaforma venga ritenuta complice, a causa di inefficienza o assenza di content moderation e di collaborazione con le autorità, della commissione di quei crimini. Nei fatti è la ipostatizzazione di una responsabilità penale oggettiva, esondante dai canoni del diritto penale liberale, a mente dei quali la responsabilità penale è personale, e anche dal framework di regolazione delle piattaforme digitali, le quali rispondono di omissione di content moderation, non degli eventuali e specifici reati commessi da utenti sulle piattaforme.
Telegram dipende dal governo russo? No
Non sono mancati commentatori, alcuni dei quali ritenuti pure autorevoli, secondo cui l’arresto è un opportuno segnale di forza dell’occidente opposto a Putin. Questa abnorme asserzione parte da un presupposto del tutto fallace e cioè che Telegram sarebbe un asset organicamente ascrivibile al governo russo. In realtà non c’è nulla di vero in tutto ciò. E a smentire una impostazione tanto grave quanto destituita di fondamento è la Corte europea dei diritti dell’uomo che in una recente sentenza risalente al 13 febbraio 2024, Podchasov contro Russia, in una vicenda concernente la questione della privacy ai sensi dell’articolo 8 CEDU e i sistemi di crittografia usati da Telegram e l’attitudine della piattaforma a non divulgare contenuti ai governi, ha dato piena ragione a Telegram.
Non dimentichiamo poi che la Corte suprema russa ha decretato la sostanziale illegalità su territorio russo di Telegram, su ricorso presentato dall’FSB, nel 2018, in una vicenda che la Corte europea ricostruisce nei dettagli e di cui consiglio l’attento studio a chiunque sostenga la organicità di Telegram al governo russo.
Non si deve confondere l’essenzialità che per le compagnie private, come la Wagner, l’esercito e i propagandisti russi, rivestono le chat segrete con crittografia end-to-end con l’idea che la piattaforma sia emanazione diretta del potere russo.
Ma così si fermano terroristi e pedofili, no?
In questo senso, la vicenda sembra richiamare quanto accaduto negli Stati Uniti nel 2016, con un conflitto assai aspro tra Fbi e governo americano, da un lato, e Apple, dall’altro. Apple aveva appena implementato un sistema di crittografia che allarmò le autorità americane, le quali non trovarono di meglio che chiederne le chiavi di cifratura e la collaborazione di Apple. Apple ovviamente rifiutò, come usa fare Telegram. Tim Cook però non venne arrestato, a differenza di Durov.
Nonostante l’aria si fosse fatta abbastanza incandescente visto che il governo e l’Fbi costruirono la vulgata mediatica secondo cui in quel modo Apple aveva nei fatti prodotto un telefono perfetto per pedofili e terroristi. Come ha scritto Giovanni Ziccardi, esperto e professore di Diritto informatico, «le dichiarazioni dei vertici di Fbi, Nsa e Governo Usa furono a dir poco allarmanti. Si estrassero dal cilindro, anche in quell’occasione, i ben noti riferimenti ai “terroristi” e ai “pedofili”, le due categorie che tipicamente sono citate per giustificare le più gravi violazioni dei diritti di libertà, per sostenere che i produttori di simili tecnologie avrebbero costruito, in tal modo, telefoni “per terroristi” e “per pedofili”». Quindi attenzione e cautela prima di tifare manette, solo perché Durov è di origini russe.
La lettera di Zuckerberg al Congresso americano
Se per la vicenda Telegram sono scorsi fiumi di inchiostro, e di parole nei talk e sui siti internet, per quella concernente la lettera di Zuckerberg indirizzata al Congresso americano le reazioni sono state molto più timide e caute. In alcuni casi, silenzio di tomba. Con l’eccezione dei commenti di Daniele Capezzone su Libero, di Carlo Lottieri sul Giornale e di Francesco Borgonovo su La Verità, la parola d’ordine del mainstream si è divisa tra ignorare quasi del tutto oppure marginalizzare e contestualizzare.
In realtà, con buona pace di normalizzatori e contestualizzatori, prassi da sempre molto cara ai fact-checker quando sono impossibilitati a decretare la falsità di una notizia e sono allora costretti a creare una cortina fumogena di bizantinismi e di distinguo, la lettera di Zuckerberg è una certificazione notarile di quanto e come anche le piattaforme social ritenute ormai compliant con i meccanismi di content moderation voluti dall’Ue, agiscano sulla base di precisi diktat politici.
La lotta alle fake news pretesto per la lotta politica
E se il Commissario Ue ed esponente Pd Paolo Gentiloni a proposito della vicenda Telegram decreta la pericolosità per la democrazia delle piattaforme digitali, ecco calare gelido silenzio a proposito di una missiva con la quale Zuckerberg fa ammenda pubblica per aver ossequiato le pretese dell’amministrazione Biden e aver quindi censurato opinioni sgradite, e spesso anche semplici ironie, su pandemia e affaire Biden jr.
La mancanza di interesse della politica e di una certa parte degli organi di informazione per la vicenda della nota di Zuckerberg è la tomba della favoletta della buonafede che animerebbe gli assertori della lotta contro le fake news e la disinformazione: perché se si ha a cuore la formazione di un dibattito pubblico e di una opinione pubblica liberi, plurali, informati, se si vuole davvero proteggere la libertà di espressione nel suo senso più alto di diritto inviolabile, si sarebbe dovuto gridare contro Facebook e pure contro l’amministrazione Biden che aveva preteso una “verità di Stato”. E invece nulla.
Semplicemente perché per molti la lotta contro le fake news è solo un mero pretesto di lotta politica: se una piattaforma censura opinioni altrui sgradite non solo poco importa, ma anzi è perfino meglio così.
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