Te Deum laudamus per il Tuo popolo più forte della morte

Di Gianmaria Maccarani
15 Dicembre 2020
È lunga la lista dei cari che il virus mi ha tolto. Se non è sua l’ultima parola è perché Tu sei giunto fino a me dentro una compagnia
Colonna di camion militari carichi di salme delle vittime del coronavirus davanti al cimitero di Bergamo

Articolo tratto dal numero di dicembre 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

Assunta, Rita, Franco, Giorgio, Ferdinando, Francesco, Aldo, purtroppo è lunga la lista di persone care o conosciute che questo 2020 ha tolto a me e alla mia famiglia.
Mia mamma Assunta è stata la prima, l’11 marzo scorso, nella Bergamo martoriata dalla prima ondata di Covid e con i camion dell’esercito per le strade. Se ne è andata senza che potessimo darle nemmeno un ultimo abbraccio; lo stesso giorno mia zia Rita, e una settimana dopo anche lo zio Franco. Pochi giorni dopo la morte di mia mamma, anche mio papà si è ammalato e io, che il 3 marzo ero salito di corsa dalla Brianza a curare mia mamma che si stava aggravando, non potevo che seguire, come era prevedibile, lo stesso percorso rimanendo, così, forzatamente in quarantena, lontano da mia moglie e dai miei figli, chiuso in casa fino al successivo 11 aprile.

Se queste sono le premesse, solo dei pazzi come i giornalisti di Tempi potevano telefonarmi una mattina di novembre per chiedermi se mi andava di scrivere un Te Deum per questo 2020 che sta per finire; matti oppure uomini che, come me, sono stati abbracciati da una Storia grazie alla quale si può affermare con voce tremula ma piena di certezza che la Morte non ha l’ultima parola e che, invece, c’è da rallegrarsi!

Tu, devícto mortis acúleo, aperuísti credéntibus regna cælórum. Tu, vincitore della morte, hai aperto ai credenti il Regno dei Cieli, recita un brano del Te Deum, ed è quello che ho pensato, con termini più scarni e meno poetici, il giorno della sepoltura di mia mamma, quando io e mio papà, accompagnati solo dal parroco del paese, abbiamo salutato per l’ultima volta l’urna con le sue ceneri. Senza la resurrezione di Cristo, la morte non avrebbe senso, senza il corpo mistico di Cristo, la compagnia di amici incontrata in una vacanza estiva al passo del Tonale nel lontano 1990, la morte e la vita non avrebbero significato.

E allora c’è solo da ringraziare! Te Deum laudamus per questo fatto accaduto duemila anni fa e che è giunto fino a me; un fatto che mi ha abbracciato e accolto in una storia che non mi hai mai abbandonato e anche nei 40 giorni di isolamento forzato mi ha reso evidente, con le telefonate degli amici e dei miei familiari, i messaggi, le videocall, che sono più le cose per cui ringraziare e gioire che ciò per cui disperare. E in un mondo che afferma ad ogni piè sospinto il contrario, mi viene voglia di gridarlo! TE DEUM LAUDAMUS!

Perché dalla tv, dai social media, dai giornali sembra che non ci sia nulla per cui ringraziare ma, anzi, tutto sia da maledire, a partire dai cinesi di Wuhan fino ad arrivare ai politici e ai dirigenti della sanità italiana; mai nessuno però che provi a offrire parole di speranza, una possibilità per ripartire, mai qualcuno capace di dare un senso anche a questi terribili giorni.

E allora concludo questo Te Deum con le parole del caro don Luigi Giussani, che meglio di me descrive da dove ha origine quella gratitudine e quella gioia che caratterizzano il popolo cristiano.

«E la gioia nasce solo dalla coscienza di appartenere ad un popolo, ad una comunione, a un disegno che abbraccia tutto, cielo e terra, fossi anche solo, come Cristo è stato solo, a morire».

Buon anno.

Foto Ansa

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