Sud Sudan. «Si sta in casa, lontani dalle finestre per paura dei proiettili vaganti»

Di Leone Grotti
13 Luglio 2016
Nello Stato più giovane del mondo sono ricominciati gli scontri tra eserciti. Già 300 morti. Intervista a Enrica Valentini, direttrice del Network radio cattoliche
In this photo taken late Friday, July 8, 2016 and released by the United Nations Mission in South Sudan (UNMISS), taking cover in the doorway of the UN offices as the fighting kicks off, tracers flying by in the background, the fighting was directly on the perimeter of the UN base the UN compound in the capital Juba, South Sudan. The president of South Sudan and his opposition rival both called Monday for a cease-fire in a conflict that has seen fierce clashes between their forces spread from the capital to a southeastern town. (Eric Kanalstein/UNMISS via AP)

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«Oggi (ieri, ndr) la giornata è passata tranquilla, nella mia zona non ci sono stati spari. Io però non mi sono arrischiata a uscire di casa, ho al massimo attraversato la strada per raggiungere un negozio». Enrica Valentini è la direttrice del Network delle radio cattoliche in Sud Sudan, l’unico mezzo di comunicazione in tante zone del paese, vive nella capitale Juba e come tutti gli altri abitanti «non so esattamente cosa succede. È abbastanza stressante», racconta a tempi.it.

[pubblicita_articolo allineam=”destra”]NUOVI SCONTRI. Da una settimana nello Stato più giovane del mondo sono ricominciati gli scontri tra i soldati fedeli al presidente Salva Kiir e quelli dell’esercito che segue il vicepresidente Riek Machar. Almeno 300 persone, in maggioranza militari, sono morti. Ieri il cessate il fuoco ordinato dai due leader ha retto ma il futuro è ancora incerto. Il paese stava giusto cercando di riprendere una vita normale dopo la terribile guerra civile interetnica scoppiata nel dicembre 2013, che ha causato decine di migliaia di vittime e due milioni di sfollati.

«CHIUSA IN CASA». Come spiega Valentini, tra le persone più informate su quanto accade nel paese, «non c’è chiarezza sul perché siano scoppiate le violenze e su quale comandante le abbia ordinate. Io come tanti altri ho passati questi giorni chiusa in casa, lontana da porte e finestre, per non essere colpita da proiettili vaganti. Purtroppo chi vive in capanne, e non in case di cemento, è molto più in pericolo di me». La cosa più difficile «è capire se sei al sicuro, se la tua zona può essere colpita oppure no».

POCA INFORMAZIONE. La situazione di incertezza ha danneggiato anche il lavoro della radio: «Molti reporter non sono riusciti a muoversi, perché non si poteva uscire di casa. L’informazione quindi è stata parziale: abbiamo ricordato di restare in posti sicuri e abbiamo fornito le poche informazioni ufficiali. Anche la radio di Stato ha diffuso più che altro musica in questi giorni. È difficile lavorare così, bisogna anche evitare di dare notizie parziali che creino il panico».

SICUREZZA E CIBO. Ieri l’aeroporto ha riaperto, alcuni negozi pure, «si sentono aerei volare» e c’è un po’ di movimento. Gli uffici però sono ancora chiusi e la popolazione fuggita dalla capitale non sa se tornare: «Bisogna capire se è sicuro muoversi o se si rischia di incontrare posti di blocco in città. La gente non si fida perché gli scontri possono ricominciare in ogni momento. Scontri a fuoco a parte, la popolazione vuole capire se regna quel clima di impunità generale che permette a chiunque di derubarti o razziarti la casa. Molto dipende anche dalla possibilità di riuscire o meno a comprare cibo al mercato».

«NIENTE DA FESTEGGIARE». Le violenze sono cadute proprio nei giorni in cui il Sud Sudan ricordava il quinto anno di indipendenza. Un anniversario in cui nessuno, continua Valentini, crede più: «La sensazione diffusa tra la gente è che non c’è niente da festeggiare. C’è frustrazione e disillusione. Prima c’erano aspettative ma ora le speranze sono poche, nessuno crede più nelle istituzioni e nel futuro». Nutre invece ancora speranza la direttrice, volontaria della Caritas di Como nel paese dal 2011. «Se non avessi speranza, non sarei qui. Io vedo che ci sono persone che credono nel valore della vita e vogliono combattere per difenderlo. Questo mi dà speranza».
Però ci vorrà tempo perché si ritorni alla normalità, conclude Valentini: «La gente ha vissuto in guerra troppi anni, non sa che cosa sia la pace o il rispetto della vita umana. Ci vorrà molto prima che le cose possano cambiare. Non bisogna però lasciarsi scoraggiare, dobbiamo andare avanti».

@LeoneGrotti

Foto Ansa/Ap

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