Tentar (un giudizio) non nuoce
Spiritualità, salute e cura (seconda parte)
Questa settimana sono stato due giorni a Parigi per una visita istituzionale di approfondimento del sistema sanitario francese. La missione è stata organizzata, sotto l’egida dell’ambasciata di Francia e nell’ambito del Trattato del Quirinale sulla cooperazione rafforzata Italia-Francia, dal Club Santè, che riunisce i principali operatori della sanità e della farmaceutica francese operanti anche in Italia. In un paio di giorni abbiamo potuto visitare centri di ricerca, ospedali, siti produttivi e abbiamo avuto incontri istituzionali al ministero della Salute, della cura e del lavoro francese, all’ambasciata d’Italia, con il direttore di France Healthcare. Abbiamo parlato molto di digitalizzazione della sanità, di telemedicina, di cartelle cliniche completamente paperless, di nuovi farmaci, frutto di ricerche sempre più avanzate anche grazie all’intelligenza artificiale, di silver economy, ecc.
Eppure, mi sono continuamente tornati alla mente le riflessioni della settimana scorsa con l’articolo “spiritualità, salute e cura”. Sì, perché più ci si addentra nelle tecniche e nelle evoluzioni della sanità, più torna alla mente la questione fondamentale: che senso hanno la malattia e la morte? Tale sguardo porta inevitabilmente alla domanda: ma io davanti a questa situazione cosa ho da dire?
Cure palliative
Ognuno è costretto a rispondere con la propria dimensione umana. Il credente risponderà che il senso della malattia è in Cristo e nella resurrezione, ma anche il non credente, nel momento in cui arriva a porsi la domanda ultima, non sfugge dall’esigenza lacerante di dare un senso al dolore. In punto di morte, egli si appellerà alla madre, all’origine familiare. La radice di appartenenza affettiva umana è insopprimibile. Il punto di arrivo non è affatto dissimile. In ogni caso, puoi dare o non dare una risposta ma la domanda rimane, il dramma c’è, è un fatto, una realtà. E quando la medicina, con tutta la sua potenza, non è più in grado di guarire, l’unica terapia cui un malato terminale può essere sottoposto sono le cure palliative, che non concorrono, di fatto, alla guarigione ma alleviano dolori e la sofferenza agendo sui sintomi. Il termine deriva da “palliare”, ovvero coprire, nascondere con un pallio che nell’Antica Grecia e nell’Antica Roma era il telo di lana che si poggiava su una spalla e si drappeggiava intorno al corpo, sopra la tunica.
Obiettivo principale di queste cure è dare senso e dignità alla vita del malato fino alla fine, alleviando prima di tutto il suo dolore, e aiutandolo con i supporti non di ambito strettamente medico che sono altrettanto necessari. Perché il malato inguaribile, secondo la filosofia cara agli hospice, deve essere curato sino agli ultimi istanti della vita, con attenzione a tutte le sue necessità? Perché il verbo curare si riferisce non tanto alla malattia, ma alla persona nel suo complesso; quindi, alla sofferenza psicologica e spirituale e alla difficoltà interpersonali e sociali che, in molti casi, la fase terminale della patologia produce. Le cure palliative si presentano come “cure totali” offerte alla persona in una globale relazionalità di aiuto che si fa carico di tutti i bisogni assistenziali.
Non sarà certo la guarigione, perché questa è impossibile, ma tutta una serie di provvedimenti per garantire una buona qualità di vita per il tempo che rimane. È un impegno continuo che comporta dinamiche diverse perché ogni persona ha una propria ricchezza, doni particolari. L’importanza dell’assistenza spirituale è considerata imprescindibile per le cure palliative in quanto connessa con la cura complessiva della persona. Un conforto che, è bene ricordare, non è mai rivendicativo, ma improntato sulla capacità di ascolto e di accoglienza al cospetto della fragilità manifesta in tutti coloro che stanno affrontando l’impotenza, il limite e la finitezza.
Il dolore del corpo e quello dell’anima
Giovanni Paolo II nel 1984 ha dedicato una Lettera Apostolica, Salvifici Doloris, proprio al “senso cristiano della sofferenza umana”, mettendo in evidenza quanto essa desti compassione, rispetto ma anche timore.
«Può darsi che la medicina, come scienza ed insieme come arte del curare, scopra sul vasto terreno delle sofferenze dell’uomo il settore più conosciuto, quello identificato con maggior precisione e, relativamente, più controbilanciato dai metodi del “reagire” (cioè, della terapia). Tuttavia, questo è solo un settore. Il terreno della sofferenza umana è molto più vasto, molto più vario e pluridimensionale. L’uomo soffre in modi diversi, non sempre contemplati dalla medicina, neanche nelle sue più avanzate specializzazioni. La sofferenza è qualcosa di ancora più ampio della malattia, di più complesso ed insieme ancor più profondamente radicato nell’umanità stessa. Una certa idea di questo problema ci viene dalla distinzione tra sofferenza fisica e sofferenza morale. Questa distinzione prende come fondamento la duplice dimensione dell’essere umano, ed indica l’elemento corporale e spirituale come l’immediato o diretto soggetto della sofferenza. Per quanto si possano, fino ad un certo grado, usare come sinonimi le parole “sofferenza” e “dolore”, la sofferenza fisica si verifica quando in qualsiasi modo “duole il corpo”, mentre la sofferenza morale è “dolore dell’anima”. Si tratta, infatti, del dolore di natura spirituale, e non solo della dimensione “psichica” del dolore che accompagna sia la sofferenza morale, sia quella fisica. La vastità e la multiformità della sofferenza morale non sono certamente minori di quella fisica; al tempo stesso, però, essa sembra quasi meno identificata e meno raggiungibile dalla terapia».
Questa “seconda dimensione”
Ecco, quello che mi spaventa della evoluzione della medicina è l‘idea che si possa perdere di vista questa “seconda dimensione” della sofferenza, più morale che materiale, più spirituale che corporale, ma non meno reale e decisiva.
Nella mia adolescenza ho incontrato per la prima volta una frase, nel Mestiere di vivere di Cesare Pavese, che non mi ha mai più abbandonato: «È veramente grande il pensiero che nulla a noi sia dovuto. Qualcuno ci ha forse promesso qualcosa? Ma allora perché attendiamo?».
Ciò che attendiamo nella malattia è davvero solo la guarigione del corpo? Guarigione che certo desideriamo e sarebbe una bestemmia dire che non è così, ma che non sempre è possibile. Allora non dimentichiamoci che insieme allo sviluppo delle cure del corpo occorre anche pensare a cosa può curare l’anima, per non trovarci improvvisamente con tutto a disposizione tranne che l’essenziale: il senso di ciò che viviamo.
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