Sperimentazione animale, la replica della Lav
Maria Falvo Responsabile Ufficio Stampa LAV
TEST SU ANIMALI, LA REPLICA DELLA LAV: NEGARE L’OPPORTUNITA DEI METODI ALTERNATIVI E’ MIOPIA SCIENTIFICA. NOI SOSTENIAMO #LASCIENZAGIUSTA
Se negare validità “scientifica” ai test su animali è una leggenda metropolitana, come scrive il dott. Fiorenzo Conti (Università delle Marche) a mezzo stampa, allora suggeriamo a tutte le baronie che difendono i test su animali di fare un sopralluogo all’ECVAM, il Centro di validazione delle alternative: potrebbe essere d’aiuto nel conoscere le tecniche più all’avanguardia dove ricercatori “di tutto il mondo”, con altissime professionalità, collaborano per dare modelli attendibili, utili per l’uomo, per il Pianeta e le malattie di cui purtroppo siamo afflitti.
Tanto dal punto di vista prettamente “scientifico”, quanto dal punto di vista “etico, filosofico, religioso, affettivo”, sono schiaccianti gli studi e le argomentazioni critiche nei confronti della sperimentazione animale, peraltro mai validata scientificamente. Che il modello di ricerca “animale” non sia utile per l’uomo non è certo una novità, e sono addirittura le stesse agenzie regolatorie e le industrie che dichiarano la non affidabilità e perfino la pericolosità della sperimentazione animale, come nel caso della recente campagna dell’AIFA (l’Agenzia nazionale del Farmaco), dove consigliavano molta prudenza nel somministrare farmaci ai bambini perché non sono adulti in miniatura, quindi figuriamoci se può esserlo un topo! E’ noto che gli effetti dei farmaci possono variare tra adulti e bambini, e perfino tra maschi e femmine. Anche nel campo della veterinaria lo stesso Ministero evidenzia le differenze tra specie. A proposito dell’elevato costo dei farmaci ad uso veterinario, infatti, afferma: “Sul prezzo del medicinale veterinario, regolato dal mercato, incidono aspetti produttivi, commerciali e distributivi che rivestono un ruolo rilevante nella sua definizione. Occorre infatti che ogni principio attivo sia studiato sulla specie animale a cui è destinato, con indicazioni e posologie accuratamente sperimentate per ognuna di esse, tenuto conto dei diversi metabolismi e di conseguenza, della differente farmacodinamica e farmacocinetica.”
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]Solo per citare alcuni dati concreti circa l’inaffidabilità “scientifica” dei test su animali, secondo gli studi condotti su animali l’alcol è un buon alimento mentre il sale è genotossico e dei 31 ingredienti che compongono il caffè, 23 sono risultati cancerogeni. Su 3000 trattamenti medici utilizzati oggi, solo l’11% è di dimostrata efficacia e l’80% dei “nuovi farmaci” non sono che copie di quelli vecchi. Su 1000 sostanze potenzialmente efficaci sugli animali per curare l’infarto solo 1 è risultata efficace nell’uomo! Tra le vicende più drammatiche che nelle ultime settimane hanno fatto il giro del mondo, la fine in tragedia della sperimentazione clinica di un nuovo farmaco in Francia: un volontario sano è morto e altri 5 hanno riportato gravi danni cerebrali. La sperimentazione preclinica su primati e su cani non è servita a salvarli… Questo non è che uno degli innumerevoli e gravissimi casi di effetti avversi dei farmaci, precedentemente testati su animali. I numeri relativi agli effetti avversi, infatti, sono elevatissimi: dai 200.000 e 300.000 morti ogni anno solo negli USA. Come ha dichiarato provocatoriamente la giornalista Jessica Fraser: “le statistiche dimostrano come i farmaci siano il 16.400% più letali dei terroristi”…
I farmaci sono testati per legge, in ultima battuta, sull’uomo: non sarebbe così se i test su animali fossero scientificamente affidabili, posto che sono eticamente inaccettabili per chi un’etica ce l’ha. Se chi usa animali volesse davvero essere trasparente verso il cittadino, aprirebbe le porte dei laboratori a giornalisti e telecamere, ma ovviamente questo non avviene. Addirittura per decenni è stato secretato il semplice nome dei laboratori autorizzati a compiere esperimenti su animali, fino al 1997 quando la LAV ha ottenuto l’accesso a queste informazioni detenute dal Ministero della Salute, grazie ad una positiva sentenza del TAR del Lazio.
Come ha recentemente affermato Thomas Hartung, Professore Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health di Baltimora, proprio in un convegno sui metodi alternativi ospitato alla Sapienza di Roma (gennaio 2016): “La difficoltà non sta nel creare delle nuove idee, ma nel fuggire dalle vecchie”.
“Ci aspettiamo, quindi, che il nostro Paese faccia di tutto per implementare i metodi altenativi, come oltretutto sancisce la legge, perché questi sono un’opportunità per la ricerca e non un ostacolo né utopia, attraverso la promozione di corsi di formazione, rigidi sistemi di controllo ed un elenco delle persone con competenze bio-statistiche, perché, per quel che risulta a noi, queste figure professionali non esistono nel nostro Paese – dichiara la biologa Michela Kuan, responsabile LAV Vivisezione – Sul sito internet della Commissione Europea, si possono leggere le azioni in atto per ottemperare a quanto richiesto dalla direttiva UE n.63 del 2010 che invita tutti gli Stati Membri a prendere misure per incoraggiare la ricerca nel settore delle alternative, contribuendo allo sviluppo e alla convalida di tali approcci. Oltre alle prevedibili azioni di Germania, Francia e Inghilterra, nella lista figurano contributi da parte della Lituania, della Slovenia, etc… Ma l’Italia dov’è?”
“Noi siamo lieti di far avanzare esperienze nazionali, come i progetti di ricerca che stiamo finanziando all’Istituto Nazionale per la Ricerca sul Cancro di Genova [per la creazione di due borse di studio dedicate ad avviare la linea di ricerca cellulare HUVEC (Human Umbilical Vein Endothelial Cells – Cellule Endoteliali della vena ombelicale umana), utile per lo studio della formazione di nuovi vasi sanguigni (angiogenesi – che alimenta il cancro) e delle funzioni delle cellule endoteliali.], o il progetto del Centro di Ricerca “E. Piaggio” dell’Università di Pisa, per ricerche sullo lo sviluppo di tecnologie innovative senza ricorso ad animali, finalizzate a valutare il rischio legato alle sostanze inalate – prosegue la LAV – Tutte attività concrete, perché le ‘leggende metropolitane’ le lasciamo agli stregoni: noi sosteniamo #lascienzagiusta”.
Negli Stati Uniti, presso la Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health, invece, si sta lavorando alla costruzione di mini cervelli umani, con autentiche cellule nervose che si aggregano spontaneamente in strutture tridimensionali, facili da riprodurre su larga scala: potranno entrare nei laboratori di neuroscienze e in quelli delle aziende farmaceutiche per ridurre i test sugli animali. Anche questa è#lascienzagiusta!
Passando a considerazioni etiche, ci preme sottolineare come dietro al campo dei test per le droghe – tema della recente campagna LAV “Aiutali a uscirne” con annessa petizione rivolta al Ministro della Salute (http://www.lav.it/petizioni/aiutali-a-uscirne) – non manchino sperimentazioni tanto discutibili quanto macabre. Capofila in questa macabra lista, l’Università di Cagliari dove il dott. Gaetano Di Chiara, all’interno del Dipartimento di Scienze Biomediche e Istituto di Neuroscienze del CNR, compie classici esperimenti di vivisezione: “Gli animali da laboratorio (ratti) vengono sottoposti a chirurgia d’impianto di un catetere cronico, per la somministrazione dei farmaci, nella vena giugulare destra e dei microelettrodi in fibra di carbonio nelle aree cerebrali di interesse. Durante la prima fase, detta di acquisizione, l’animale verrà addestrato a imparare tutte le operazioni necessarie per ottenere la droga. Verranno utilizzate delle specifiche gabbie computerizzate munite di leve che, se azionate dal ratto secondo uno specifico programma di lavoro, consentono l’iniezione della sostanza tramite una pompa collegata al catetere dell’animale all’interno della gabbia. In seguito ad ogni iniezione verrà associato uno stimolo non contingente (per esempio una luce o un suono) che sarà condizionato al farmaco”.
Considerate le innumerevoli dipendenze “umane” da droghe, ci appare quanto meno poco efficace cercare di investigare queste problematiche nei ratti. Lo stesso Di Chiara afferma come: “L’abuso/ dipendenza da sostanze è un disturbo del comportamento motivato” quindi non è riconducibile a una semplice interazione fisica, il comportamento e la psiche sono fondamentali! E, poi, che dire quando afferma che “la dipendenza non farmacologica è nella stessa categoria del gioco d’azzardo”, infatti chi non ha mai visto dei ratti spendere tutto alle slot machine?!
Un’ultima considerazione riguarda il rapporto tra molte sperimentazioni condotte sugli animali e la loro finalità, prettamente orientata al business, invece che alla salute dei cittadini consumatori. Ne sono un esempio gli studi sui meccanismi di gratificazione-dipendenza investigati nell’uomo, i cui dati, invece di essere usati per combattere un problema così diffuso, che affligge fasce di età anche giovanissime, vengono venduti all’industria alimentare, per creare dei veri e propri algoritmi sfruttati in fase di sviluppo di prodotto e di marketing. Le dinamiche che ci spingono a consumare un dato cibo (attrazione/effetti negativi), infatti, si basano sugli stessi meccanismi neuronali della dipendenza, poiché le aree cerebrali legate a dipendenze da fumo, droghe e cibo sono sovrapponibili. A conferma di ciò, si pensi che la Philips Morris, nota multinazionale del tabacco, ha acquisito la Kraft e altre industrie alimentari, integrando la gestione dei problemi legati all’industria alimentare e le informazioni sulle sostanze d’abuso, relative al piacere e non alla necessità! La dipendenza da cibo non è che l’ennesimo business pagato da milioni di vittime umane e animali. Persino nel campo del cibo le differenze tra specie sono ovvie: cioccolato e cipolle sono potenzialmente mortali per il cane mentre per i Lemuri del Madagascar (proscimmie, animali relativamente assai “vicini” ai primati umani cioè all’uomo) il cianuro è un ottimo snack.
Continuare a sperimentare su animali non solo non salverà l’uomo, ma ritarderà la scoperta di cure per le malattie che, purtroppo, affliggono la nostra specie. Anche dal punto di vista economico comporta un enorme dispendio di fondi, basti pensare che per sviluppare un nuovo farmaco viene speso un milione di euro, con un indice di fallimento tra test su animali e sull’uomo di oltre il 90%. Per testare tossicologicamente un solo pesticida su animali, ci vogliono almeno 5 anni e quasi 8 milioni di euro, mentre negli USA due istituti del National Institutes of Health (NHI) hanno stretto una collaborazione con l’EPA (Environmental Protection Agency) per utilizzare i robot di screening automatici ad alta velocità del NIH Chemical Genomics Center (NCGC), in grado di testare la tossicità di 10.000 composti chimici in pochi anni. Questa è #lascienzagiusta.
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