Spera nel futuro solo chi ha memoria di un fatto presente
Articolo tratto dal numero di gennaio 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.
In una recente conversazione tra amici, uno dei presenti ha fatto una considerazione che mi ha colpito e che riassumo a senso. «L’anno prossimo probabilmente succederà – dovrà succedere – qualcosa. C’è una tale crisi nella società, nella politica, nella Chiesa, nella nostra stessa vita comunitaria, che qualche risposta, qualche sommovimento deve accadere. Non può andare avanti così».
A ogni fine di anno si fanno gli auspici perché l’anno nuovo sia migliore. L’aspettativa è rumorosamente celebrata da feste e dai media; in particolare dalla televisione che, nella notte di Capodanno, calamita l’attenzione popolare in veri e propri riti di attesa. In Spagna, dove mi trovo oggi, 31 dicembre, famiglie e piazze colme si fanno guidare dallo schermo a mangiare, senza sbagliare (porta sfortuna) un acino d’uva a ogni rintocco, che suona la mezzanotte, al campanile del palazzo della Regione nella piazza del Sol a Madrid. Notare che è un edificio e quindi una cerimonia civile e non religiosa. Il desiderio di buona novità futura sorpassa grandemente la gratitudine per quel che è successo in passato. Giacomo Leopardi, nel Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere, scritto nel 1832, mette in evidenza come la promessa di un felice anno nuovo del venditore a un passante sia futile e conclude:
«Quella vita che è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura».
Come diceva Gilbert K. Chesterton, gli atei, o quelli che si comportano come tali, aggiungo io, non sono quelli che non credono a niente, ma quelli che credono a tutto: alla fortuna, per esempio.
Nonostante la considerazione dell’amico di cui sopra possa rientrare nel clima di attesa ingenua per l’anno nuovo, come dicevo, la frase mi ha colpito. In quest’anno che è finito l’aria mi sembra divenuta più pesante, a causa di un pensiero debole, irrealistico e ondeggiante, che sembra si stia impadronendo di tutti, governanti e popolo, clero e fedeli. Secondo sondaggi e statistiche, società e Chiese vanno male: le prime per l’economia, intesa come espressione della capacità di sviluppo; le seconde per la perdita massiva di praticanti, soprattutto giovani, con svuotamento degli edifici di culto, venduti per usi commerciali e di svago. C’è poi l’ombra di difficoltà e possibili catastrofi epocali, dalla «guerra mondiale a pezzi», come dice papa Francesco, alle incapacità ad affrontare le conseguenti ondate migratorie; dalle modificazioni climatiche che porterebbero alla sommersione di città con milioni di abitanti, al cosiddetto inverno demografico con il crescente aumento del numero di morti rispetto al numero di nati.
Quest’ultimo fatto è particolarmente significativo perché è già presente, e non nei paesi poveri, ma in quelli ricchi della “vecchia” – per l’appunto – Europa. Qui – e da tempo nel nostro paese – come si suole dire, non si fanno più bambini, o meglio se ne fanno troppo pochi: all’incirca 1,30 per donna, con impossibilità dei nuovi nati a sostituire la morte dei due genitori. L’evenienza è generalmente attribuita a difficoltà economiche e sociali, causate da politiche miopi che non favorirebbero la maternità e tanto meno la famiglia, da cui addirittura alcune tendenze di pensiero e di diritto sembrerebbero voler prescindere. Questi fattori sono veri, come sono veri altri, quali, ad esempio, con il drastico calo delle nascite (che nel 1995 in Italia ha raggiunto 1,19 figli per donna) la diminuzione delle donne in età fertile, cui l’Istat attribuisce il 67 per cento di riduzione della fecondità nel periodo 2008-2018.
C’è tuttavia un altro fattore, più radicale: il benessere, come dice il Papa, praticamente mai citato e quindi fatto oggetto di attenzione al proposito, si associa a egoismo ed edonismo che hanno indebolito la capacità generativa che richiede insieme sacrificio e speranza. La bassa natalità nelle società benestanti non è compensata dall’immigrazione. La diminuzione di popolazione giovane lavoratrice getta un giustificatissimo allarme sul futuro della protezione sociale di tutti, a motivo della necessità di “mantenere” quelli che non lavorano, giovani e vecchi sempre più numerosi. Si crea così un circolo vizioso in cui i timori per il futuro producono altri timori, con una resistenza più ostinata ad aprirsi agli altri, siano essi quelli che vengono da fuori di noi, come i migranti, o quelli che possono venire da noi, come i figli. Nell’omelia a Santa Marta del 30 settembre scorso, il Papa ha lanciato un appello per la «cultura della speranza» fatta da giovani e vecchi insieme: i primi con la dotazione intellettuale e fisica, i secondi con la consapevolezza della tradizione, cioè del senso della storia e della vita.
Nulla è impossibile a Dio
Sperare in un cambiamento per il nuovo anno è più che giustificato, perché ci sono tante cose che non vanno (alcune gravemente) in una società smarrita per la crescente irresponsabilità dei politici e per la mancanza di bussola del popolo che li elegge. Non è quest’ultima una considerazione elitaria, sprezzante, della democrazia che, come diceva Winston Churchill, «è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle forme che si sono sperimentate fino ad ora». È una considerazione coerente con la consapevolezza che il necessario e inevitabile rispetto del consenso popolare non concede a esso il dominio della verità e della giustizia.
Drammi enormi per la collettività e i singoli sono venuti con l’approvazione della maggioranza dei votanti e delle piazze. Ci sono poi disavventure e tragedie personali, che sono prigioni accidentali, in cui ci si sente incolpevolmente rinchiusi, senza possibilità di uscire. Sperare, per quanto necessario, è difficile quando tutto appare fermo e frenato da difficoltà che appaiono insormontabili dalla fragilità degli individui e degli amici, pochi, cui ci si può rivolgere. I casi di solidarietà diffusa sono giustamente segnalati con clamore, perché sono eccezioni e non la regola.
Nella Lettera ai romani (4,18), san Paolo dice che Abramo, quando gli venne promesso – a lui, che aveva la moglie sterile – che con la sua discendenza sarebbe diventato padre di molti popoli, «egli credette, saldo nella speranza contro ogni speranza». La moglie Sara, invece, avendo udito la promessa, cosciente del suo stato, «rise» (Gen 18,12). Mi colpì don Luigi Giussani che riportava la versione latina della frase di san Paolo come «in spem contra spem», ovvero, anche per chi non sa il latino, non in spe, stato in luogo fermo e tranquillo, ma in spem, moto a luogo che richiede giudizio, volontà e cammino, quindi fatica e dramma. Sempre san Paolo nella stessa lettera (8,24) dice:
«Ora, ciò che si spera, se è visto, non è più oggetto di speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe sperarlo?».
Tornando alla giustificata critica leopardiana della speranza in una felicità che non si conosce, bisogna ammettere che nessuno spera in ciò che già sa o ha, spera invece in qualcosa che gli manca e che non dipende da lui, ma non perché non lo conosce, ma perché non è suo. Quando un ragazzo ama una ragazza e spera che lei gli corrisponda, spera proprio perché l’ha conosciuta e d’altra parte ammette che non è sua proprietà. Lo stesso è la speranza nella vita di cui non siamo padroni. Perché Abramo sperò e attese, mentre Sara rise? Abramo aveva riconosciuto nella storia sua, della sua famiglia e del suo piccolo popolo una mano misteriosa che lo guidava, che l’aveva messo in moto verso un destino che non conosceva, ma di cui vedeva i segni e le indicazioni. Si può essere realisticamente pessimisti a riguardo delle singole persone, per i loro limiti – vedi Sara – ma la storia è in mano a Dio, che può vincere e vince ogni limite: «Nulla è impossibile a Dio» (Lc 1,37), dice l’Angelo alla Madonna, annunciandole che resterà incinta per opera dello Spirito. Si può e si deve sperare.
Qualcosa è iniziato
Noi non sappiamo come andrà a finire, ma sappiamo che qualcosa è iniziato. Nella nostra normalità abbiamo visto i segni di una Presenza più grande di noi, che ci ha dato la vita, ci ha comunicato il suo senso e positività, ci ha reso capaci di affrontare le contraddizioni per quanto dure, ci ha messo dentro una speranza che, appunto, non muore. Ciò si è verificato attraverso i nostri genitori e la compagnia della Chiesa che arriva fin nel particolare della nostra piccola comunità e degli amici con cui condividiamo la quotidianità. Speriamo per un avvenimento che ci ha fatti più liberi e lieti e che costituisce quel che siamo. La memoria che sostiene l’esistenza non è semplicemente un insieme di ricordi ma la coscienza di quello che ci fa adesso, perché ci ha fatti prima e ci farà sempre.
Buon anno allora! Per la nostra speranza e le nostre domande abbiamo qualcuno cui chiedere e pregare. In un modo o nell’altro avremo anche risposta.
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