«Sparano ancora. Non abbiamo cibo né acqua. Salvateci»
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«Il sangue continua a essere versato in Centrafrica e a Zémio. Io voglio dire al governo e alla comunità internazionale: vi prego, fermate tutto questo, questo popolo ha sofferto troppo!». È l’appello disperato lanciato da padre Jean-Alain Zembi, curato della parrocchia San Giovanni Battista di Zémio, cittadina del sud-est del Centrafrica. Il 28 giugno è scoppiata una guerra violentissima nel villaggio, che ha già causato decine di morti, la linea telefonica è stata interrotta e il sacerdote ha solo Facebook per lanciare l’allarme e una richiesta di aiuto al resto del mondo. Tempi.it è riuscito a contattarlo e farsi raccontare la sua storia.
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]STRAGE DI BANGASSOU. I primi scontri sono cominciati dopo la strage di Bangassou, dove il 14 maggio sono morte più di 100 persone quando un gruppo di anti-balaka ha attaccato i musulmani e i membri di etnia peul (principalmente musulmana) della città per «vendicarsi» delle violenze islamiste subite durante la guerra civile del 2013-2014. «Qui a Zémio i rapporti tra i musulmani e il resto della popolazione sono molto freddi da tempo», spiega padre Zembi a tempi.it. «Dopo i fatti di Bangassou, i peul hanno cominciato a torturare gli agricoltori che andavano a coltivare i campi. Questo ha reso il lavoro campestre quasi impossibile ed è un disastro, perché qui siamo poveri e viviamo solo del prodotto della terra».
SCONTRI CON I MUSULMANI. Davanti ai ripetuti attacchi, «non potendo più sopportare le atrocità commesse dai peul, dei giovani coraggiosi hanno costituito una milizia di autodifesa per respingere questi violenti». Per vendicarsi, i peul hanno cominciato a incendiare e depredare i villaggi attorno a Zémio, e per tutta risposta gli agricoltori di Zémio hanno smesso di vendere ai peul e ai musulmani i loro prodotti. La tensione ha continuato ad aumentare fino a quando, alle 8 di mattina del 28 giugno, è scoppiata una vera e propria guerra: le forze di autodifesa contro peul e musulmani.
«LA CITTÀ È BRUCIATA». «Durante gli scontri tutta la città è stata incendiata e non è difficile, visto che le case sono fatte di paglia», continua il sacerdote. «La gente è scappata per nascondersi da tutte le parti, molti si sono rifugiati qui nella chiesa e una nuova tragedia infernale è cominciata». Decine di cadaveri riempivano le strade e «nessuno osava uscire perché continuavano a volare proiettili. L’80% degli sfollati non ha più una casa. Tutto ciò che era stato costruito, è andato distrutto ed è davvero triste». Su 25 mila sfollati presenti in città, duemila attualmente risiedono presso la parrocchia.
LE FOSSE COMUNI. Padre Zembi ha organizzato delle squadre per «togliere i corpi dalle strade e seppellirli in una fossa comune, perché di bare non ne abbiamo. Purtroppo anche questo lavoro è difficile perché non abbiamo protezioni, le violenze continuano e rischiamo un’epidemia». Oggi a Zémio gli scontri non sono ancora finiti e «la situazione della sicurezza continua a peggiorare. Per strada ci sono uomini che camminano con le armi spianate, nessuno è in grado di disarmarli e il futuro è incerto».
«VENITE A SALVARCI». Nella parrocchia gli sfollati «dormono per terra, senza coperte, i bambini e gli anziani non ce la fanno più: non abbiamo da mangiare, né acqua potabile da bere, i nostri mezzi sanitari sono limitati. Molti piccoli sono traumatizzati: ci sono dei figli che hanno visto i padri venire bruciati vivi. Ci serve assistenza umanitaria perché i casi di malattie e contaminazione aumentano». Ecco perché, conclude il sacerdote, «spero che questo appello venga letto da più gente possibile e qualcuno venga a salvare questa gente che non ha voce e soffre in silenzio». «Che la pace, il dialogo e il perdono di Cristo possano tornare presto a Zémio e in Centrafrica».
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