
Morirà prima il socialismo o il Venezuela? Viaggio in un paese ridotto in ginocchio da Chávez e dal suo (mezzo) successore
Occhi azzurri violentemente bistrati di nero. Un ovale da madonna fiorentina. La bocca piccola ma le labbra tumide da vera miss. Unica concessione all’informalità: i lunghi capelli castani chiari portati lisci e poco curati. Che ci fa una foto come questa fra i 44 ritratti di giovani sorridenti, mestamente allineati nelle loro lapidi di cartone ricoperte di cellophane, nel simbolico cimitero di Plaza Altamira dedicato ai caduti delle manifestazioni che dal febbraio scorso chiedono le dimissioni del presidente chavista Nicolas Maduro?
Prima di Hugo Chávez (salito al potere nel 1999 e passato a miglior vita, ancora presidente, nel marzo 2013) il Venezuela era il paese del petrolio scialacquato, delle donne più belle del pianeta (è il paese col maggior numero di Miss Mondo e il secondo dietro agli Stati Uniti per Miss Universo), delle masse diseredate (è venezuelana la più grande agglomerazione urbana informale di tutta l’America latina, Petare, alle porte di Caracas, che ha più di un milione di abitanti), della corruzione endemica. Dopo Chávez e con l’eredità del suo operettistico “socialismo bolivariano” il Venezuela è il paese in cui la gestione politicizzata, assistenzialistica e incompetente della rendita petrolifera farà letteratura per secoli a venire; dove i poveri sono poveri come prima ma più fanatizzati, manipolati e moralmente corrotti di prima; dove la corruzione si è ingrassata in parallelo all’aumento del prezzo del barile di petrolio (il paese è classificato al 160esimo posto su 177 stati da Transparency International); dove la criminalità è triplicata in 15 anni e le donne più belle del mondo muoiono assassinate: è successo a Monica Spear Moots, Miss Venezuela nel 2004, uccisa a gennaio da rapinatori durante una vacanza. E alla donna della foto in piazza Altamira: Génesis Carmona, Miss Turismo Carabobo 2013, ferita a morte in febbraio da un pistolero filogovernativo mentre partecipava a una manifestazione per le dimissioni di Maduro nella città di Valencia.
Così un volto che doveva stare sui megacartelloni della pubblicità o nelle pagine delle riviste glamour, emblema seriale della perfezione effimera e disimpegnata, è diventato un vero viso di persona, consegnato alla memoria come tutti i volti di coloro che si sacrificano per una causa: come quelli di Bassil, di Delia, di Wilmer, di Giselle e di tutti gli altri qui ricordati. «Cristo ha dato la vita per noi, noi abbiamo dato la vita per il Venezuela», sta scritto su un cartello che sovrasta le lapidi cartonate. Poco più in là una Vergine Maria a grandezza naturale, protetta da una copertura in plexiglass, guarda afflitta una croce formata con le foto dei caduti posta ai suoi piedi.
Le manifestazioni sono cominciate il 4 febbraio nelle università per protestare contro episodi di criminalità nei campus, hanno coinvolto in breve tempo i partiti di opposizione e spesso sono diventate “guarimbas”, episodi insurrezionali a base di barricate di legname vario e pneumatici incendiati, talvolta con lancio di oggetti contundenti o incendiari contro la guardia nazionale. A parte gli scontri di piazza e gli arresti di manifestanti, il governo ha reagito accusando di cospirazione volta ad assassinare il presidente i leader dell’opposizione, che vengono arrestati di settimana in settimana. In Venezuela funziona così: Maduro va in tivù e accusa di “magnicidio”, cioè attentato mortale al capo dello Stato, qualche avversario politico; nel giro di 48 ore al massimo il Procuratore generale della Repubblica, l’ineffabile signora Luisa Ortega, emette un mandato di arresto contro le persone menzionate che ricalca esattamente le accuse del presidente. Una volta, al tempo di Chávez, ci fu una donna giudice che non si sottomise all’uso politico della giustizia: la signora Maria Luisa Afiuni liberò un accusato che era in carcerazione preventiva da tre anni, in violazione della legge. Fu fatta arrestare e incarcerata in una prigione comune, dove venne violentata.
Dopo l’esproprio dei negozi
La subordinazione della magistratura all’esecutivo, così come la museruola messa alla libertà di informazione con la chiusura di radio e tv vicine all’opposizione e una legge sulla “responsabilità sociale” dell’informazione fatta per intimidire i giornalisti, erano pratica corrente già al tempo di Chávez. Cos’ha fatto in più Maduro, eletto fra contestazioni e ricorsi nel marzo 2013, per meritarsi la richiesta di dimissioni? In un anno di presidenza la situazione economica è peggiorata drammaticamente. L’inflazione ha toccato il 56,7 per cento, la più alta del mondo, e quest’anno andrà ancora peggio. L’indice di penuria di molti beni di prima necessità è arrivato al 30 per cento: latte, pane, zucchero, caffè, farina di mais, carne bovina, carta igienica, tovaglioli di carta, mancano spessissimo. Anche in centro città molti hotel non includono più la prima colazione fra i servizi offerti, perché non hanno la certezza di disporre quotidianamente del necessario. Lunghe file si formano davanti ai supermercati, per lo più gestiti dallo Stato dopo gli espropri degli anni scorsi, quando arriva la notizia che un prodotto è apparso sui banconi. Poi c’è il tasso di povertà, che dopo essere diminuito negli anni passati l’anno scorso ha ripreso a salire: l’Istituto nazionale di statistica ha reso noto che la povertà relativa è passata dal 21,2 per cento del 2012 al 27,3 e quella assoluta dal 7,1 al 9,8 per cento. In un paese dove il salario minimo è fissato in 4.200 bolivares mensili, il costo del paniere dei prodotti alimentari di base ammonta a 10.444 bolivares.
Sulle responsabilità delle due dilaganti crisi, quella economica e quella della sicurezza, non tutti a Caracas la pensano allo stesso modo. Nei pressi di piazza Venezuela, nel centro della capitale, alle 10 di mattina di un sabato si snoda una coda di 200 metri di aspiranti acquirenti di generi di prima necessità. L’entrata al cortile che porta al grande magazzino è sorvegliata da militari che imbracciano armi automatiche.
Paulo viene da La Dolorita, una frazione dell’immenso barrio di Petare. Nel suo borgo il consenso al chavismo si aggira sul 70 per cento: «La colpa è dell’opposizione, che incoraggia gli studenti universitari a fare queste proteste violente per screditare il presidente. Poi c’è la guerra economica degli imprenditori contro il governo che li obbliga a servire il popolo: investono nella finanza i dollari anziché usarli per produrre le merci o per importare, accaparrano i prodotti in attesa che il prezzo aumenti o li vendono di contrabbando e al mercato parallelo». È esattamente, parola per parola, quello che la propaganda governativa ripete tutti i giorni.
Ma basta spostarsi un po’ più in giù nella fila e si incontra Marta, un’impiegata di Chacao, la municipalità storicamente antichavista dove si trova anche piazza Altamira (il nome con cui è conosciuta quella che ufficialmente si chiamerebbe piazza Francia), per ascoltare un discorso diametralmente opposto al primo: «Questa penuria è tutta colpa del governo, della sua politica di controllo dei prezzi e dei cambi. Non concedono alle imprese abbastanza dollari per importare le merci, perché se li sono rubati tutti loro, e coi prezzi troppo bassi i produttori hanno smesso di produrre, perché non hanno più margini di profitto. Oppure producono per il mercato parallelo o per il contrabbando. In questo paese stiamo imparando tutti a vivere così».
Ha ragione Marta e ha torto Paulo. Spiega Ignacio Gutierrez, economista del Centro Politica Publica: «In Venezuela il mercato dei cambi non è libero, un’impresa che ha bisogno di importare deve fare richiesta dei dollari necessari a un ente governativo che prima si chiamava Cadivi e adesso si chiama Cencoex. Esso alle imprese pratica un tasso di 50 bolivares per un dollaro, molto lontano dal tasso di cambio ufficiale, che è di 6,3 bolivares per un dollaro, ma migliore del cambio sul mercato parallelo, che è di 87 bolivares per un dollaro. Però le imprese che fanno richiesta sono tante, e l’ente approva solo alcune transazioni e spesso per quantità inferiori a quelle richieste dalle imprese. Il risultato è che sul mercato arriva una quantità ridotta di prodotti, che vengono subito accaparrati: la gente teme che per molto tempo non li rivedrà. Le imprese non accaparrano nulla, i controlli statali sono asfissianti. Il problema che si è aggiunto dall’ottobre scorso è che i dollari veri arrivano sempre più raramente: anche quando la transazione è approvata e l’impresa opera a partire dall’“assegno” che si ritrova in mano, lo Stato tarda a versare la cifra approvata».
Per questa ragione molte compagnie aeree straniere hanno sospeso i voli nelle ultime settimane: sono creditrici di una cifra che sta fra i 2 e i 3 miliardi di dollari. E come mai lo Stato non paga? Il Venezuela non è forse un grande produttore di petrolio, che costituisce il 96 per cento del suo export? Il problema sta proprio lì. Quando Chávez salì al potere nel 1999 il barile di petrolio si pagava 9 dollari, oggi il suo epigono Maduro beneficia di un barile a 107 dollari, eppure le finanze pubbliche sono in rovina. Il fatto è che il numero dei dipendenti della Pdvsa, la società di Stato per gli idrocarburi, è passato dai 45 mila di allora ai 115 mila di oggi, ma nello stesso periodo la produzione è scesa da 3,4 milioni di barili al giorno a 2,5. Inoltre alcune centinaia di migliaia di barili di petrolio venezuelano vengono ceduti a prezzi di favore a Cuba e a paesi dei Caraibi e dell’America centrale per ragioni politiche. Pdvsa ha accumulato debiti per 48,3 miliardi di dollari e ha costi di produzione fra i più alti della regione.
Poi c’è il buco nero rappresentato dai sussidi al prezzo della benzina: in Venezuela costa circa 0,1 bolivar al litro, cioè 1,1 centesimi di euro al cambio ufficiale, 0,11 centesimi al cambio parallelo. Lo Stato finanzia il consumatore, e questo lo ricambia col contrabbando con gli stati confinanti, Colombia e Brasile. Si va dai “bachaqueros”, i piccoli contrabbandieri che di notte varcano il confine con la Colombia con una tanica a testa, ai grandi traffici organizzati dagli alti gradi dell’esercito e dalla guardia di frontiera.
Infine, il grande sifone rappresentato dalle frodi nell’ambito del Cadivi: un’inchiesta parlamentare ha appurato che nel solo triennio 2011-2013 la bellezza di 20 miliardi di dollari sono stati sottratti da false imprese che con false richieste per importazioni (per quelle di medicinali salvavita si poteva scroccare il favoloso cambio di 1 dollaro ogni 6,3 bolivares) hanno ottenuto l’accesso alla valuta. La Procura generale della Repubblica, sempre molto sollecita quando si tratta di mandati di arresto contro gli oppositori, per questa gigantesca truffa non ha finora incriminato nessuno. Il che lascia capire molte cose.
A un anno dalle elezioni
Non tutti sono d’accordo che questi fatti dimostrino semplicemente l’incompetenza e la corruzione dominanti nel sistema del socialismo bolivariano. C’è chi afferma che questa sia una strategia deliberata per sottomettere la società e realizzare il totalitarismo. Fra loro un coraggioso presule come l’arcivescovo emerito di Los Teques e di Maracaibo Ovidio Perez Morales: «Io non ho mai creduto alla tesi dell’incapacità del governo», dichiara. «Quella che sembra inefficienza è la messa in pratica di un progetto che mira a distruggere l’impresa privata e ad assorbirla nello Stato. L’alta inflazione, la penuria, tutto è funzionale alla conquista del controllo dell’economia. Le code davanti ai supermercati non tolgono il sonno al governo: abituano il popolo a stare sottomesso e a dipendere completamente dal governo. Adesso introdurranno le tessere del razionamento, e tanta gente le accoglierà con sollievo. Diranno: “Ora non dobbiamo più fare la coda”».
I chavisti, però, secondo i sondaggi non rappresentano più la maggioranza dei venezuelani. L’Instituto Venezolano de Analisis de Datos (Ivad) afferma che alla fine del marzo scorso solo il 36,7 per cento dei cittadini si dichiarava allineato col Partito socialista unito, che egemonizza il governo, mentre il 47,3 per cento appoggiava l’opposizione unita. Un anno prima, all’indomani della morte di Hugo Chávez i suoi eredi potevano contare sul 55,9 per cento del consenso, e l’opposizione solo sul 31,6. Le elezioni politiche sono previste per la fine dell’anno prossimo. Ma il Venezuela reggerà fino alla scadenza elettorale? Nessuno lo sa, nessuno osa fare previsioni.
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3 commenti
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mi piacerebbe che il dibattito sull’articolo vertesse su questioni di merito.alcuni esponenti della comunita’ internazionale prendono posizione giudicando solo in funzione delle proprie convinzioni politiche:se uno e’ di destra,in Venezuela tutto va male,se uno e’ di sinistra allora si parla di congiura mediatica,ingerenze straniere e cosi’ via.il problema e’ differente e si basa su dati di fatto ineluttabili:dopo la morte di Chavez si sono deteriorati alcuni aspetti economici e sociali,giungendo a livelli di confrontazione e di esasperazione non conosciuti in passato.il progetto economico non e’ supportato da una coscientizzazione delle masse che operano solo per interesse proprio o per mantenere privilegi acquisiti.i valori morali del popolo sono molto bassi,e si nota dal proliferare di accaparramento e contrabbando da parte di singoli individui,soprattutto degli strati sociali piu’ bassi che ne hanno fatto una fonte di reddito.poi ci sono due malintesi di fondo:il primo e’ che l’avversario degli oppositori non e’ il governo.si deve combattere non contro i politici,ma contro i venezolani che usufruiscono di benefici pubblici ingiustificati sotto forma di sussidi,posti di lavoro inutili e improduttivi,titoli di studio risibili,case ottenute gratis e mai pagate,benefici salariali esclusivi degli impiegati pubblici e cosi’ via…E’ vero,il governo fa questo per comprare consenso applica abusi vergognosi,ma questo e’ il gioco del potere e gli oppositori in gran parte non combattono l’ingiustizia,ma vogliono anch’essi usufruire della grande torta da cui sono esclusi.Il secondo riguarda la incapacita’ del governo:non e’ vero che il governo sia inetto.la inflazione,la scarsezza di alimenti,le code,sono create ad arte per accentuare la dipendenza dallo stato che e’ l’unico che ha in mano i generi alimenteri e si occupa della distribuzione,tutto questo per arrivare un giorno alla richiesta da parte di un popolo esasperato di misure di razionamento di tipo cubano, di una italia bellica.in questo modo le tessere non saranno una misura imposta dal governo,ma quasi un regalo e un segnale di collaborazione.Comunque la pigrizia,la picardia,la mancanza di iniziativa e di senso di responsabilita¡,unita all’individualismo e mancanza di cultura politica e sociale,di senso comunitario e al risentimento sono i veri elementi che hanno portato a questo.non e’ una questione ideologica,questo e’ il “nostro” governo,quello che ci rappresenta per quello che siamo,per le nostre capacita’,la nostra storia e i nostri meriti
Io spero con tutto il cuore che morirà prima chi ha avvelenato Chavez e chi ha tentato di fucilarlo qualche anno fa ed è poi stato costretto a scappare in elicottero.
Del resto, ognuno in Italia ha il suo ruolo ed in tempi di crisi, pur di guadagnare un tozzo di pane, si scrivono articoli del genere che infangano un’intera categoria.
Ma è in buona compagnia, i più son costretti a seguire le mode, i migliori, invece, preferiscono morire in piedi piuttosto che abbassarsi al livello dei cani in attesa del biscottino del padrone.
Invito i lettori, almeno quelli dotati di un minimo di raziocinio, a vedere questo video:
https://www.youtube.com/watch?v=nfRLODcaYdo
Tutto è’ reale. La cosa più preoccupante e’ che il risultato di tutti questo anni di malgoverno (ora arrivati alla resa dei conti) e di sottomissione di un popolo e’ l’incapacità delle persone di lavorare e di lavorare per se per la propria famiglia ed essere liberi