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Sicilia. Lo scandalo Crocetta è dappertutto tranne che in quelle parole intercettate

Nessuno dei professionisti della "legalità" si domanda come mai un giornale sia in possesso di una conversazione che per la procura «non esiste», e perché i palermitani ormai preferiscono la spiaggia ai riti vuoti dell'antimafia?

Luigi Amicone
21/07/2015 - 2:40
Politica
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lucia-borsellino-matteo-tutino-rosario-crocetta-ansa

Ha voglia il governatore siciliano Rosario Crocetta a protestare la propria innocenza. L’Espresso ribadisce di essere in possesso dell’intercettazione con il medico Matteo Tutino (ora agli arresti domiciliari per truffa) che dell’ex assessore alla Sanità Lucia Borsellino, figlia di Paolo Borsellino, avrebbe detto: «Va fatta fuori come il padre». E c’è poco da fare: dopo la vibrante denuncia dell’altro figlio di Borsellino, Manfredi, e il plateale abbraccio all’altro siciliano, il presidente Sergio Mattarella, dalle cascate di indignazione non si esce. Tutto in Sicilia scorre, come da copione teatrale – o se volete, da Gattopardo di Tomasi di Lampedusa – verso l’inesorabile “bisogna cambiare tutto per non cambiare niente”. Verso le ennesime dimissioni anticipate del governatore e le ennesime elezioni anticipate dell’assemblea regionale.

Certo, scriverebbe perfino un corrispondente della Gazzetta di Nairobi dall’Italia, in un paese libero, democratico, occidentale, qualcuno avrebbe dovuto verificare che tipo di “intercettazione” è quella pubblicata dal settimanale debenedettiano. Perché se è vero come è vero, come dice Crocetta, che «per ben tre volte interpellata, tre volte la procura palermitana ha detto che quella intercettazione non esiste, non è agli atti», i casi sono due e tutti e due riguardano notizie di reato prima che il dibattito sul se, come e perché Crocetta si debba dimettere e i siciliani tornare a votare. I casi sono: o quella dell’Espresso è un’intercettazione illegale – un caso di spionaggio. Oppure è stata registrata da apparati dello Stato senza autorizzazione dei magistrati. Di qui non si scappa. C’è una terza ipotesi? Sì. Ma neanche è possibile prenderla in considerazione. Perché è l’ipotesi che supporrebbe una procura in possesso di una intercettazione conseguita con metodi illegali, che la consegna a un giornale invece di distruggerla e che nasconde la mano negando l’una e l’altra iniziativa criminosa. Impossibile.

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Comunque sia, il nostro corrispondente estero da Roma concluderebbe la sua corrispondenza per il lettore keniota con una semplice osservazione: «Qui in Italia succedono cose strane: si grida alla mafia, si tengono ricorrenti manifestazioni piagnucolose e retoriche della cosiddetta “antimafia”, giornali e televisioni discutono per giorni sullo scandalo di un politico intercettato ad assecondare minacce mafiose, il governo di una Regione a cosiddetto “alto rischio mafioso” finisce in crisi e si prepara a elezioni anticipate in nome della lotta alla mafia. Ma la pietra dello scandalo – l’intercettazione che ha messo in moto la valanga – rimane avvolta, direbbero gli italiani, in un’ombra di “stampo omertoso”. Così che nessun magistrato indaga, nessun giornale sembra interessato a informare l’opinione pubblica su chi, come e perché ha incastrato il governatore Crocetta, nessun politico si perita di formulare anche solo una interrogazione parlamentare al ministro dell’Interno».

Povero governatore. Merita tutta la nostra solidarietà. Non siamo di quelli che fecero il tifo per lui. Come invece lo furono i suoi grandi elettori di ieri e grandi detrattori di oggi che chiedono la sua testa di fu governatore di una coalizione democratica e illuminata che andava dal Pd, passava per il famoso partito dell’amore Lgbt e culminava con le truppe di Grillo. Ha ragione Crocetta: se non è golpe di “poteri oscuri” che altro è?

Intanto, in margine al caso tragicomico, registriamo la patetica cronaca dei “professionisti dell’antimafia”. Che per la prima volta – e naturalmente per aggravare con un ulteriore elemento emotivo la posizione del governatore – invece dell’euforia delle celebrazioni, lamentano la scarsa affluenza di popolo alla 23esima rievocazione della strage di via D’Amelio. «Ma ci ricorderemo – lacrima su Repubblica Attilio Bolzoni – anche del deserto di via Mariano D’Amelio, la strada dove ventitré anni fa il magistrato fu ucciso da un’autobomba con cinque poliziotti e dove ieri neanche trecento – solo una cinquantina i palermitani, tutti gli altri volontari di associazioni provenienti da varie regioni d’Italia – si sono riuniti alle 16,58 per commemorarli con un minuto di silenzio».

Già, nessuno di questi professionisti delle vendite di giornali basate sull’unica industria che funziona a Palermo – quella che fa le carriere di alcuni procuratori, ricchi i vari cinepanettonari antimafia e famosi gli scrittori antimafiosi alla Camilleri – si domanda perché i palermitani vanno in spiaggia a Mondello piuttosto che ai teatrini allestiti per le tv e le passeggiate dei “volontari” sussidiati dallo Stato. Nessuno si chiede se invece di “un minuto di silenzio” e la grancassa di retorica dei telegiornali al seguito, Paolo Borsellino e i suoi cinque agenti di scorta guardano giù e vorrebbero essere ricordati per quello che si fa per il popolo siciliano, in termini di promozione umana, sociale, economica, invece che per finanziare le trombe del silenzio e l’indignazione al “libretto rosso” che non è mai esistito – come dicono le inchieste – nemmeno dipinto sul muro.

E invece niente. Il solito lacrimatoio, il solito balletto di corvi e gabbianelle, di intercettazioni e misteri, di commissari montalbani e mascariamenti, di dimissioni del governatore e di tour della legalità del parlamentino di turno. Mentre i siciliani continuano a emigrare e, bisogna riconoscerlo, a illustrare in continente e in giro per il mondo la loro indole laboriosa, creativa e geniale. Pensiamo a personaggi come Fiorello, Francesco Merlo, Gianni Riotta, Pietrangelo Buttafuoco solo per fare qualche nome e stare nel mondo del giornalismo e dello spettacolo. Ecco, cosa aspettano i tanti siciliani illustri a denunciare questa chiavica di eterna emergenza antimafia (li arrestassero i mafiosi, e facessero i processi in silenzio e senza troppe storie cinepanettone, come succede in Germania dove c’è più mafia che in Italia) che serve soltanto all’import-export di impiegati e assistenzialismo statale? E infatti Crocetta se ne andrà mentre si apprestava a chiedere allo Stato altri 300 milioni, esattamente nello stile “assistenzial-rivoluzionario” dei suoi predecessori, dopo che per vie giudiziarie hanno fatto fuori Totò Cuffaro, l’ultimo politico di razza che ha conosciuto la Sicilia.

Sapete cosa chiederebbe Borsellino come lotta alla mafia? Chiederebbe un piano Marshall per mettere a reddito il petrolio turistico e agroalimentare, le start-up per i giovani siciliani e la chiusura del 99 per cento degli enti burocratici e dispensatori di posti di lavoro fasulli. Chiederebbe di guardare al modello delle regioni del Nord (Lombardia in testa), che danno oltre 100 miliardi di euro all’anno di solidarietà al resto del paese (fonte Cgia Mestre). Ovvero versano molto di più di quanto ricevono dallo Stato. Con la Lombardia, ad esempio, che registra un residuo fiscale annuo positivo pari a 53,9 miliardi di euro, che in valore procapite è pari a 5.511 euro. Ovvero ogni cittadino lombardo (neonati e ultracentenari compresi) dà in solidarietà al resto del Paese oltre 5.500 euro all’anno. Mentre la Sicilia, ad esempio, ha il peggior saldo tra tutte le 20 Regioni d’Italia: in termini assoluti è pari a -8,9 miliardi di euro, ovvero ogni cittadino siciliano (neonati e ultracentenari compresi) riceve in solidarietà dal resto del Paese 1.782 euro all’anno.

Chiederebbe, Borsellino, la fine del centralismo romano e, corsi e ricorsi della storia, il ritorno all’autonomismo siciliano vero, strada verso un federalismo, col Nord (con la Lombardia a esempio), che taglia l’imbuto e la greppia (mafiosi) dello Stato romanocentrico.

@LuigiAmicone

Foto Ansa

Tags: antimafiaespressomafiapaolo borsellinoPdRosario Crocettasicilia
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