
«Sì, siamo razzisti», la stampa si prostra a Meghan Markle e ai Blm

Al New York Times, i guru dell’autocensura acrobatica, modello revival maoista, gongolano: le accuse di razzismo rivolte ai tabloid britannici da Harry e Meghan Markle hanno portato allo scisma, epurazioni, dimissioni e mea culpa anche lì, dove «siamo così indietro rispetto agli Stati Uniti», «c’è un’enorme ignoranza di cosa sia il razzismo in questo paese»: sono parole di David Yelland, ex editore del The Sun, arruolato come analista di punta dalla bibbia liberal per denunciare i «pregiudizi inconsci» che ammalano le redazioni dei colleghi britannici e commentarne gli «imbarazzanti voltafaccia».
Harry e Meghan dalla regina Oprah
«L’importante è correggersi», autoumiliarsi, per tutto il resto c’è l’epurazione, la lettera scarlatta: lo imponeva il Grande Timoniere ai tempi della Rivoluzione culturale cinese, lo impone oggi la Rivoluzione culturale americana: e a processo, per il peccato imperdonabile di razzismo interiorizzato, finisce ora la stampa britannica. Tutto grazie alle esternazioni-bomba rilasciate alla regina delle tv americane Oprah Winfrey dai Sussex, emigrati nella scintillante Los Angeles dopo aver rinunciato a Regno, titoli e status quo in Inghilterra anche a causa del razzismo, manifestato da “qualcuno” della famiglia reale che ha espresso «preoccupazioni sul possibile colore della pelle» del loro primogenito, e dell’approccio tossico e bigotto dei giornalisti inglesi.
Ian Murray: «Non siamo razzisti»
E mentre, lapidaria e perfetta, arrivava la risposta dalla “rattristata” regina Elisabetta («Le questioni sollevate, in particolare quelle sulla razza, sono preoccupanti. Anche se alcuni ricordi possono variare, esse vanno prese molto sul serio e affrontate privatamente dalla famiglia»), quella della Society of Editors, società degli editori britannici, scatenava un putiferio. I fatti: dopo l’intervista a Winfrey, Ian Murray, direttore esecutivo della società formata da 400 membri della stampa locale e nazionale, scriveva un pezzo per rispedire le accuse di razzismo e bigottismo al mittente, concludendo:
«È davvero strano che la coppia abbia precedentemente attaccato i media britannici per presunta intrusione nelle loro vite private, ma si sia aperta in diverse occasioni ai media negli Stati Uniti, l’ultimo evento è l’intervista di ieri con Oprah Winfrey, che ha raggiunto il pubblico di tutto il mondo. I media britannici non hanno mai evitato di puntare i riflettori su coloro che occupano posizioni di potere, celebrità o influenza. Se a volte le domande poste sono scomode e imbarazzanti, allora così sia, ma la stampa non è certamente razzista».
Giornalisti di colore contro Murray
Apriti cielo. «Forse è meglio che tu ti cerchi altrove un presentatore per i tuoi National Press Awards quest’anno. Forse qualcuno che la pensi come te», ha ribattuto a Murray Charlene White, volto della Itv (il canale che ha trasmesso l’intervista di Meghan e Harry nel Regno Unito) che doveva ospitare i premi della Società degli editori britannici. A ruota decine di giornalisti hanno dichiarato di non voler essere presi in considerazione per la cerimonia, 236 giornalisti di colore di Guardian, Metro, corrispondenti del Nyt, della Bbc e altri hanno firmato una lettera per contestare Murray: il suo «totale rifiuto di ammettere che non ci sia alcuna forma di razzismo o bigottismo nella stampa britannica è ridicolo» in un paese in cui il 94 per cento dei giornalisti sono bianchi.
I giornalisti citano decine di statistiche sulla scarsa rappresentatività di etnie nere, asiatiche o minoritarie nella stampa inglese e lamentano l’assenza di persone non bianche tra i candidati ai premi della stampa nell’anno della rivolta Black Lives Matters (il Nyt integrerà con studi che denunciano la scarsissima copertura giornalistica inglese alle minoranze etniche, se non in relazione a programmi dedicati a “immigrazione, terrorismo e criminalità”, nonché l’assenza di firme di redattori non bianchi in prima pagina nell’estate delle proteste antirazziali, «e delle 111 persone citate in prima pagina in quei giorni solo una era una donna nera»).
L’autoflagellazione di Murray
Morale? La Società degli editori pubblica una nota per scusarsi e ammettere che «c’è ancora molto lavoro da fare nei media per migliorare la diversità e l’inclusione». Ian Murray si dimette, si flagella, si autodenuncia: «Devo assumermi le mie colpe, farmi da parte in modo che la società possa iniziare a ricostruire la sua reputazione». «Forse potremmo iniziare nominando una persona di colore per dirigere la Società», ha suggerito Rachel Oldroyd, direttrice del Bureau of Investigative Journalism.
Nelle stesse ore il giornalista televisivo Piers Morgan è stato licenziato da Itv. La sua colpa? Avere dichiarato in mondovisione di «non credere a una parola» di quelle dette da Meghan Markle. A credere invece anche a quelle che non ha detto, ma solo lasciato intuire, c’è la potente Opal Tometi, co-fondatrice di Blm, che in seguito all’intervista ha invitato il popolo a boicottare Buckingham Palace e rivoltarsi contro la famiglia reale. Autoumiliazione, epurazione, virtù al comando: proprio come insegna l’irreversibile ortodossia progressista oltreoceano.
La Rivoluzione culturale americana
Americana, divorziata, ex attrice, mamma afroamericana, femminista, attivista, incinta del secondo figlio: paragonandosi alla sirenetta Disney Ariel che perde la voce per amore di un principe (è il pegno chiesto da una strega cattiva per renderla umana), Markle ha assicurato alla regina Winfrey che ora di questa voce ha nuovamente e finalmente il controllo. Una voce che ha innescato quella che per il leader di Republic, Graham Smith, potrebbe diventare «la crisi peggiore dal 1936», anno in cui Edoardo VII abdicò al trono d’Inghilterra in favore del fratello, sposò l’americana divorziata Wallis Simpson, fece amicizia con i più alti gerarchi della Germania nazista e rinunciò a partecipare all’incoronazione della regina Elisabetta.
Non sarà una analogia presentabile come quella della sirenetta, ma rende perfettamente la portata delle conseguenze dell’aver gettato la monarchia in pasto ai media statunitensi e avere asservito il giornalismo anglosassone alla nuova Rivoluzione culturale americana.
Foto Ansa
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