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Si può provare il gusto della vita anche senza stomaco

Storia di Francesca che in "Io, Guenda e il gene matto" ha raccontato la sua vicenda: 25 interventi chirurgici, un male "strano" e la scoperta del cibo come "cura"

Fabio Cavallari
19/05/2023 - 5:30
Cultura
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Francesca Settimi e Lucia Ravera
Francesca Settimi e Lucia Ravera

Francesca Settimi è una di quelle persone che sembra avere l’energia di un bambino di dieci anni. Si muove, passa da un tavolo all’altro, da una discussione all’altra, da un Paese all’altro a migliaia di chilometri da casa sua, sulle rive del Lago Maggiore, sponda piemontese, con una scioltezza e una velocità da lasciare senza fiato.

Incontrarla sui vigneti del Monferrato ad un evento dove, assieme agli assaggi di una cantina, presentava il suo libro scritto con l’amica scrittrice Lucia Ravera, è stata una scoperta con il sapore dell’imprevisto. Termine che ripercorre l’intera sua storia personale, senza essere mai pronunciato, perché per lei non è la dialettica a guidare i rapporti, bensì l’incontro, la condivisione, la colleganza, come direbbe Paolo Massobrio editore del libro Io, Guenda e il gene matto.

Ebbene, Lucia racconta di Francesca con la delicatezza di una sorella, che innanzitutto si preoccupa di proteggerla con le parole, con il sorriso, con una mano che le cinge il cuore. Guenda è il nome che si danno le due amiche. Così Guenda parla a Guenda, dentro un tu che diventa un “io”, per aprirsi ad un “noi” che va oltre loro due.

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Un continuo riadattarsi alla vita

Tutta la sua storia ha origine dalla scoperta di un carcinoma mammario, quando Francesca è ancora una giovane donna. Un incidente di percorso che colpisce migliaia di donne, che sempre più spesso ritornano ad una vita normale. Non è così per la nostra protagonista, perché da lì a poco scopre che quel tumore è originato dalla mutazione rara di un gene chiamato CDH1, che senza regole o determinazioni preventive, provoca tumori “a cazzo”, come direbbe Francesca, manifestandosi come cancro infiltrante, e nel seno, mostrandosi come tumore di tipo lobulare.

Nel tempo il “gene matto” circola nel suo corpo come un alieno (avrebbe detto Oriana Fallaci) ed è costretta a sottoporsi a 25 interventi chirurgici. Francesca studia e rincorre la malattia, si fa asportare lo stomaco quando ancora i medici non intravvedono alcun tumore, anche se ad operazione eseguita le confermano che era già presente anche lì.

Per Francesca è un continuo riadattarsi alla vita, fare i conti con un corpo che ha reazioni che non conosce, mostrarsi più forte di lui, anche quando, dopo l’ultimo intervento, i medici scoprono lungo l’addome dei puntini sparsi sul peritoneo provenienti dalle ovaie.

Una mano protesa al cielo

Cosa permette a Francesca di non soccombere, di rimettersi in posizione eretta, di reimparare a mangiare, a bere, a guardare suo marito con spirito gaudente? Le passioni, le amicizie, la compagnia, la relazione, la cura che ella stessa immette in ogni rapporto. Trova forza nel cibo, non come sostanza per la sussistenza alimentare, ma per il gusto, e perché dentro quel gusto ci sono centinaia di anni di storia, di esperienza, di mani sapienti, di combinazioni di arti, di mestiere e di amore per gli altri.

Costretta a rinunciare alla professione di architetto, frequenta per tre anni la scuola Cordon Bleu a Parigi, diventando chef patissier. Poi nel 2013 nella sua Colazza, sul lago Maggiore, fonda la scuola “Cook on the Lakes”.

Nella sua dimora arrivano persone da ogni luogo e lei, racconta, racconta, racconta, come se nulla la potesse scalfire. Francesca non è un’eroina dei tempi moderni, non conduce la battaglia come fosse in guerra, anche se per un po’ lo ha fatto, ma convive con il suo ospite, costeggia le rive del lago con una mano sempre protesa verso il cielo cercando l’aggancio con quel mistero d’infinito che ha scoperto come un imprevisto.

Risorsa, sorpresa, scoperta

Così ora parla, parla, parla oltre il suo libro, perché ogni pagina è una scoperta che neppure lei conosce per intero. Quattro parole continuano a sorreggere la sua esile e potente esistenza. Non sono la modaiola “resilienza” e neppure la stantia “narrazione” che il giornalismo ha così tanto abusato da farla diventare ancor più antipatica del retorico “storytelling”. Le sue parole sono plurali, riguardano tutto ciò che sta fuori di lei, che guardano all’altro come risorsa, sorpresa, scoperta.

Io, Guenda e il gene matto non racconta di una malattia, ma di una donna, dell’amore per la relazione, della indispensabilità della fragilità, della cura come la intendevano i greci, “mettersi all’ascolto dell’altro”, o i latini, “preoccuparsi per qualcuno”, concetto che in inglese si esprime con il verbo “to care”, che significa “mi riguarda”.

A Francesca interessa il gusto, la combinazione dei sapori, la scoperta di un ingrediente, il piacere dell’altro. Francesca ama la cucina anche se non ha più lo stomaco, ma essa è diventata la sua medicina primigenia, la sua genesi ed il suo domani, il suo saluto al mistero.

Io, Guenda e il gene matto – Lucia Ravera (Edizioni Comunica)

Tags: cancrocibocucinalibritumore
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