
Albino Pierro e le sue parole di realtà

«Sacce schitte na cose:
ca ci ha’ rumèse nghiùse nda stu core
come nd’i mène sante d’u Signore
tutte quante u crijète».«Soltanto una cosa so:
che sei rimasta chiusa in questo cuore
come nelle mani sante del Signore
tutto quanto il creato».(Da Albino Pierro, “A occhie e cruce”)
Spesso la poesia ricorre alle esperienze e alle immagini umane per descrivere le cose divine, per parlare di Dio. In Dante Dio è «amor che muove», in Jacopone da Todi è «divino fuoco», «fiamma d’amor viva» in san Giovanni della Croce. Nella poetica di Albino Pierro (1916-1995), poeta dialettale lucano, accade spesso il contrario, come nella poesia A occhie e cruce: la mano di Dio che protegge il creato diviene essa stessa immagine metaforica per esprimere il tentativo umano di custodire un amore. Affinché possa essere compresa, è però necessario che quell’immagine sia sentita come concreta, vicina, limpida. Così è, certamente, nella cultura popolare a cui l’autore si riferisce.
Similmente, nell’epigrafe di apertura della sua prima silloge dialettale, ’A terra d’u ricorde (1960), Pierro assimila la freschezza della “parlata” dialettale che sta per espandersi alla vittoria, liberatoria, di Cristo che «ha rinchiuso la morte».
«S’i campène di Paske
su’ paróue di Criste
ca hè fatte nghiùre ’a morte,
mó sta parlèta frisca di paìse jèttete u bbànne e dìcete:
“Vinèse a què
v’àgghie grapute i porte”».«Se le campane di Pasqua sono
le parole di Cristo
che ha rinchiuso la morte,
adesso questa fresca parlata di paese getta il bando e dice:
“Venite qui,
vi ho aperto le porte”».
Di Albino Pierro si celebra quest’anno il trentennale dalla morte. Originario di Tursi, in Basilicata, fu poeta sconosciuto al grande pubblico, eppure non passò inosservato ai giurati del Premio Nobel di Stoccolma, dove per ben due volte sfiorò la vittoria negli anni Ottanta.
Lo notarono subito anche i grandi critici letterari italiani, come Franco Fortini e Gianfranco Folena, che si entusiasmarono per l’originalità della sua lingua dialettale, il tursitano, caratterizzato da una dimensione arcaica e da una ricca persistenza di elementi del latino (è uno dei pochi dialetti, per esempio, ad aver mantenuto la desinenza t alla terza persona del presente indicativo).
«E il più importante poeta dialettale del Sud dopo Salvatore Di Giacomo». Alza il tiro Franco Brevini, docente dell’Università di Bergamo e critico letterario, autore del celebre saggio Einaudi Poeti dialettali del ‘900, pubblicato nel 1989. «Nella poesia di Pierro c’era molto di più dell’arcaismo linguistico che entusiasmò Fortini e Folena. Era il rapporto tra quelle parole e la realtà: le parole della pagina poetica erano quelle veramente usate da quel mondo. Una novità per la letteratura italiana».
Perché una novità?
La letteratura italiana non aveva potuto raccontare la realtà che c’è fuori, perché non aveva le parole di quella realtà, aveva solo quelle della convenzione letteraria. Quando Leopardi deve indicare la contadina marchigiana, la chiama «donzelletta», un termine stilnovistico, non certo il nome con cui quella ragazza veniva indicata al suo tempo. Quando dice che porta un «mazzolin di rose e di viole», forse non sa che fioriscono in momenti diversi. Non aveva guardato che fiori avesse, forse non gli interessava neppure. Quell’immagine era un fossile letterario, non era la realtà. Invece il dialetto, essendo lingua d’uso, è un codice che ha gli strumenti per dire le cose della vita concreta, quelle che hanno bisogno di un nome per essere indicate.
Quale mondo racconta Albino Pierro?
Il poeta lucano ha avuto il merito di portare sulla pagina un Sud diverso da quello della poesia napoletana e della sua eterna primavera, il luogo di una abundantia cordis esemplare. Insomma, la Tursi di Pierro non è un locus amoenus, ma quel mondo difficile e decadente che ci hanno rivelato le memorie degli antifascisti esiliati, come Carlo Levi per Aliano, o Cesare Pavese per Brancaleone Calabro. Un Sud più arcaico, remoto, con una geologia franosa e dilavata dalle acque; luoghi solitari, talvolta inquietanti, dove vivono usi e costumi estremamente arcaici.
E il dialetto è uno strumento decisivo in questo senso…
Certo, quando il poeta usa il dialetto di un certo mondo è obbligato a stare in quel mondo. Pierro mette a fuoco un tema da letteratura elevata, ovvero la sua nevrosi, il suo disagio esistenziale, attraverso materiali che sono per forza di cose quelli arcaici del suo mondo. Il suo paesaggio interiore così prende le parole e le forme del paesaggio esterno, che non è propriamente allegro (iaramm, il precipizio; timpa sciullet, dirupo crollato).
I precipizi, le frane di quei luoghi diventano la frana del suo animo…
Come Leopardi aveva cercato un sistema di simboli per raccontare la sua sofferenza, (il vulcano, la giovane Silvia, il passero solitario), anche lui ha fatto lo stesso col mondo del suo paese, con i suoi paesaggi e la sua mentalità.
Lei lo ha conosciuto di persona?
Ho studiato la sua poesia tra gli anni Ottanta e Novanta, e in quel periodo ci siamo incontrati e sentiti in più occasioni. Ricordo la sua casa romana, dove viveva in una stanza spoglia. Mi sono rimasti impressi gli scaffali della libreria, pieni, più che di libri, di ritagli stampa sulla sua opera.
Era ossessionato dal successo?
Dal riconoscimento, direi. Il riconoscimento, in fondo, è quello che cercano i bambini. C’era qualcosa di primitivo, di profondamente infantile, in questo uomo e nella sua poesia. È uno degli aspetti della sua bellezza.
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